martedì 25 novembre 2025

Mentire a se stessi

LUMEN - Qualcuno ha detto che mentire agli altri è discutibile, ma inevitabile, mentre mentire a se stessi è imperdonabile.

COPILOT - Sì, Lumen — è una frase che colpisce al cuore della condizione umana. La sua forma più nota è attribuita a Friedrich Nietzsche, anche se variazioni simili sono state espresse da Jung, Sartre, Dostoevskij e persino da autori contemporanei. L’idea è potente: mentire agli altri può essere una strategia sociale, ma mentire a se stessi è una ferita ontologica.

Perché mentire a se stessi è imperdonabile Distrugge la possibilità di autenticità: se non riconosciamo ciò che sentiamo, desideriamo o temiamo, viviamo una vita che non ci appartiene.
Blocca la crescita: la consapevolezza è il primo passo verso il cambiamento. L’autoinganno congela l’evoluzione.
Genera sofferenza invisibile: spesso chi mente a se stesso non sa nemmeno perché sta male. Il dolore è reale, ma la causa è nascosta.

Mentire agli altri: una difesa sociale Può essere una forma di protezione, diplomazia, persino compassione.
In certi contesti, è inevitabile o funzionale: per evitare conflitti, per mantenere ruoli, per sopravvivere.
Ma se diventa sistemico, può corrodere la fiducia e l’identità.

La psicanalisi come smascheramento Il lavoro terapeutico è spesso un processo di disvelamento dell’autoinganno.
Freud parlava di resistenza: il paziente si oppone alla verità perché è troppo dolorosa.
Jung parlava di ombra: ciò che non vogliamo vedere di noi stessi, ma che ci guida comunque.

Conclusione

Mentire a se stessi è imperdonabile non perché sia moralmente sbagliato, ma perché ci allontana da noi stessi. È una forma di esilio interiore. Eppure, tutti lo facciamo — almeno per un po’. Il vero atto di coraggio è riconoscere la menzogna e tornare a casa.


LUMEN - La butto lì: mentire a se stessi è inevitabile quando si ragiona in termini di peccato (per il quale bastano i pensieri) e non in termini di azione (per il quale c'è il codice penale o la riprovazione sociale).


COPILOT - Lumen, questa “buttata lì” è in realtà una riflessione potentissima. Quasi una tesi filosofica da sviluppare. Provo a raccoglierla e rilanciarla, come in un dialogo socratico:

Peccato vs. Azione: il terreno dell’autoinganno

Quando il giudizio morale si sposta dal piano dell’azione a quello del pensiero, la coscienza diventa tribunale permanente. Non serve più fare qualcosa di “sbagliato”: basta pensarlo, desiderarlo, immaginarlo. E in quel momento, la mente si sdoppia: una parte sente, l’altra condanna.

In questo scenario, mentire a se stessi diventa una strategia di sopravvivenza psichica. Se ogni pensiero può essere peccato, allora bisogna nascondere, rimuovere, razionalizzare. Non per ingannare gli altri, ma per non essere schiacciati dal peso della colpa interiore.

Il codice penale punisce l’azione. La morale punisce l’intenzione. Il diritto distingue tra pensiero e atto: non si punisce ciò che si pensa, ma ciò che si fa.
La morale religiosa (soprattutto in tradizioni monoteiste) punisce anche il pensiero: l’odio, l’invidia, il desiderio, la lussuria.
Questo crea una sorveglianza interna costante, che può generare nevrosi, repressione, e — appunto — autoinganno.

Autoinganno come difesa morale “Non ho davvero pensato questo.”
“Non era un desiderio, solo una fantasia.”
“Non è peccato se non lo faccio.”

Queste frasi non sono bugie per gli altri, ma tentativi di proteggere il Sé da una condanna interna. Il soggetto si mente per non essere giudicato da se stesso.

Conclusione provvisoria

La tua intuizione è profonda: l’autoinganno nasce più facilmente in sistemi morali che giudicano l’intenzione anziché l’azione. Dove il pensiero è già colpa, la mente si difende mentendo a se stessa. E forse, solo una morale più compassionevole — o una psicanalisi più radicale — può sciogliere quel nodo.

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