domenica 11 maggio 2014

L'attentato fallito - 8

Cap. 8 - Lunedì


I giornali di lunedì erano ovviamente pieni di pagine, articoli e foto sugli ultimi sviluppi del caso Stockton. Il Bristow Today, che Ben leggeva tutti i giorni, dedicava una pagina intera, piene di foto, a ciascuno dei due protagonisti principali, la vittima e il suo killer, ricostruendo per quanto possibile la loro vita passata.
Altre pagine riportavano una serie di interviste. C'era quella ufficiale del capo della polizia, Vernon Fleming, che riepilogava a beneficio dei giornalisti tutta la dinamica dei fatti e quella con il portavoce dell'ufficio del procuratore distrettuale, che spiegava come si sarebbe sviluppato l'iter giudiziario della vicenda. Poi c'era quella, ottenuta con una certa difficoltà, ma alla fine concessa, con la vedova del giudice Stockton, che mostrava il profondo dolore della povera donna.
Infine c'erano altre interviste, più brevi, ma non per questo meno interessanti, con varie persone che avevano conosciuto i protagonisti, fatte con lo scopo di mostrare ai lettori il lato più umano e personale della vicenda. Un aspetto che al pubblico piaceva sempre moltissimo.
Così erano stati rintracciati e intervistati gli amici del club di Stockton, alcuni suoi colleghi di Tribunale, compresa Geena Howard, la segretaria; poi Delly Marshall, la cameriera di casa Stockton, alcuni vicini di casa di Trevor Ruffin e l'avvocato che l'aveva difeso nell'ultimo processo.
Nonostante fossero le dieci del mattino, Ben Wallace se ne stava comodamente seduto alla scrivania, leggendo avidamente tutto quello che il giornale riportava sull'argomento. D'altra parte non aveva nessun lavoro particolare da fare quella mattina. O meglio così si era convinto, per giustificare il suo dolce far niente, dal momento che, se davvero avesse voluto, c’era ancora qualche lavoretto arretrato da finire. Ma anche un probo investigatore privato ha diritto, qualche volta, a raccontarsi qualche piccola bugia.
Ben notò che Tina Perry non veniva citata da nessuna parte, il che voleva dire che, all'infuori di lui, nessuno sapeva della sua attuale relazione con Trevor Ruffin. Beh, pensò Ben con un sorriso orgoglioso, anch'io ho le mie informazioni esclusive. Mentre leggeva l'intervista a Delly Marshall, la cameriera, Ben percepì una vaga, stranissima sensazione. Il nome gli diceva qualcosa e anche la foto gli dava un'impressione strana. Non di averla già vista, questo no. Piuttosto come se assomigliasse a una persona che invece ben conosceva. Ma era soprattutto il nome a incuriosirlo, o meglio il cognome. Marshall, Marshall...
- Ci sono ! - esclamò rivolto a se stesso.
Marshall era il nome da ragazza di Tina Perry, l'amante di Ruffin. E Marshall era anche il cognome della cameriera della vittima. Una coincidenza ben strana, a pensarci bene. Certo Marshall non era un cognome particolarmente raro, dalle loro parti. Ma Ben aveva imparato a non trascurare mai le coincidenze. E se fossero state parenti ? Sorelle, magari... Ma certo ! Ecco a chi assomigliava Delly: a Tina Perry, nata Marshall. Due sorelle... perchè no ?
Non c'era che un modo per scoprirlo: telefonare a Elliot Perry. A quell'ora non era certo a casa, ma Ben aveva anche il numero della fabbrica dove lavorava. Sarebbe stata una cosa di un attimo. Perry fu rintracciato in pochi minuti e prese il telefono più sorpreso che contrariato.
- Sì ? Chi mi vuole ?
- Sono Wallace, signor Perry. L'investigatore.
- Ah, siete voi. Qualche altro problema ?
- No, ho solo bisogno di farvi una domanda.
- Ma state ancora lavorando al mio caso ? Non ce n'è bisogno. Vi assicuro che è già tutto finito. Ho parlato chiaro con mia moglie e lei se ne andata senza dire una parola. Non ha neanche provato a negare.
- Meglio così. - si lasciò scappare Ben.
- Sì, meglio così. E poi... - continuò Perry abbassando la voce - non credo di avere altri soldi da spendere per questa storia.
- State tranquillo, anche per me è tutto finito. Mi serve solo un'informazione. Una cosa semplicissima, poi vi lascio tornare al vostro lavoro. Per caso vostra moglie ha una sorella ?
- Sì certo. Non ve ne ho parlato, vero ?
- No. D'altra parte non era necessario per l'incarico che mi avevate affidato. Come si chiama questa sorella ?
- Delly.
Tombola, si disse Ben. Tutto quadra.
- Scommetto che ha più o meno l'età di Tina e le assomiglia abbastanza.
- Proprio così. Ha solo un anno in più. Però non è sposata.
- E scommetto che fa la cameriera a casa del giudice Stockton, quello che hanno ammazzato sabato.
Elliot Perry aveva visto la notizia in televisione, come tutti, ma non aveva approfondito molto sui giornali.
- Sì, esatto. Avete visto la sua foto sul giornale, vero ?
- Sì.
- La cosa vi interessa ?
Proprio così, pensò Ben, ma non era il caso di dare troppa pubblicità alla cosa con il suo ex cliente.
- Non particolarmente. - disse con noncuranza - Era solo una mia curiosità.
- Bene. Allora posso ritornare al lavoro.
- Sì certo, fate pure. E scusate se vi ho disturbato.
- Non c'è di che. - concluse Perry, lasciando invece capire di essere stato disturbato malvolentieri.
Ben posò il telefono e si appoggiò allo schienale della poltroncina. Socchiuse gli occhi per concentrarsi meglio, e incominciò a far girare il cervello a tutta velocità. Troppe coincidenze in quella storia, accidenti, troppi fatti strani. E di nuovo la sensazione di avere già visto anche Janet Stockton. Si alzò di colpo e andò a prendere la cartelletta che conteneva il materiale raccolto su Tina Perry. Si risedette alla scrivania e ricominciò ad esaminare con cura tutte le foto che aveva scattato. Anche quelle inutili o mal riuscite, che non aveva inserito nella relazione finale per il cliente.
E finalmente la vide. Era un po' sfuocata, ma si vedeva chiaramente Janet Stockton dietro la vetrata di un bar che parlava con un uomo. L'uomo era in ombra e non era possibile riconoscerlo solo guardando la foto. Ma lui sapeva chi era, perchè li aveva visti di persona, mentre stava là davanti al bar, con la macchina fotografica in mano. La foto era stata scattata il venerdì precedente, nel primo pomeriggio, e quell'uomo non era altri che l'amante di Tina Perry: Trevor Ruffin.
No, si disse Ben con un sorriso, davvero troppe coincidenze, in questa storia. Adesso aveva bisogno di mettere giù le sue idee per essere sicuro di non dimenticare niente e poterle poi ricontrollare con calma. Era quasi sicuro di essere sulla strada giusta, ma non voleva correre il rischio di prendere un abbaglio per troppa precipitazione.
Ben dispose davanti a sè tutto il materiale di cui disponeva, che consistevano in alcuni ritagli di giornale, una copia della relazione che aveva fatto per Perry ed una serie di foto, alcune normali, altre ritagliate dal giornale. Il suo sguardo passava velocemente da un documento all’altro, con eccitazione appena contenuta.
Punto primo: sappiamo che l'assassinio del giudice Stockton è stato materialmente Trevor Ruffin, ma non conosciamo il mandante. Punto secondo: Tina Perry e Delly Marshall, la cameriera di casa Stockton, sono sorelle. Punto terzo: Janet Stockton, la vedova inconsolabile, si è incontrata con Trevor Ruffin proprio il giorno prima dell'attentato. Punto quarto: Trevor Ruffin era l'amante di Tina Perry. Ergo: il mandante dell'omicidio non può essere altri che la moglie Janet.
Ma quale poteva essere il movente ? Ben si rese conto che il problema era davvero delicato. Mettiamo pure che, come si diceva in giro, il giudice Stockton fosse un donnaiolo. Perchè ammazzare proprio lui ? Se Janet Stockton ci teneva tanto al marito, perché non far fuori la rivale ? Sarebbe stato sicuramente più logico, anche se nelle faccende di cuore, la logica non contava mai molto.
A meno che…. Ben si mise a sfogliare gli articoli finchè non ritrovò quello che cercava. Era la deposizione di un testimone oculare, un tale che si trovava a passare sul marciapiede proprio mentre i coniugi Stockton uscivano dal portone. Ben incominciò a leggere:
"Ho visto il giudice tirare fuori una sigaretta e cercare di accenderla. Però l'accendino gli è scappato di mano e lui si è chinato per prenderlo. E' rimasto chinato per qualche attimo, come se non riuscisse a prenderlo in mano e intanto guardava davanti a sè, dall'altra parte della strada. Poi si è rialzato con lo sguardo perplesso ed è stato colpito".
Che cosa diavolo stava guardando, Stockton, si chiese Ben ? Probabilmente aveva visto il killer che si preparava a sparare. O almeno era quello che avevano pensato tutti. In effetti, come aveva poi ricostruito la polizia, il killer era posteggiato in un auto proprio davanti alla First National Bank, dall'altra parte della strada.
Però non lo convinceva. A quell'ora di sera era buio, e Stockton non avrebbe potuto vedere un accidente. Lincoln Street era una via piuttosto larga e davanti alla banca l'illuminazione era quasi inesistente. Lui lo sapeva bene perchè una volta ci aveva fatto un appostamento. Inoltre, se il killer era in macchina, poteva spuntare al massimo solo il fucile.
Quindi, riepilogando, se la strada era larga, se là davanti era buio e se il killer era nascosto in macchina, come diavolo faceva Stockton a vederlo ? Ma non era tutto. Se davvero il giudice avesse visto un killer, avrebbe dovuto avere una faccia spaventata. Tanto più che qualche giorno prima aveva ricevuto una lettera minatoria e quindi doveva essere sul "chi vive". Invece, secondo il testimone, aveva un'espressione sorpresa. La cosa sembrava davvero un po' troppo strana.
A meno che…., si disse Ben eccitatissimo, Stockton non "sapesse" che dall'altra parte della strada c'era un killer. Ed era stupito perchè non sparava. Adesso quadrava. Accidenti se quadra. Era Janet il bersaglio del killer... E il marito era il mandante. Stockton aveva conosciuto Ruffin al processo e, pur avendolo assolto, sapeva che mestiere faceva. Niente di più facile che avesse deciso di ingaggiarlo per far fuori la moglie. Ma qualcosa era andato storto e il killer aveva sbagliato mira.
No, neppure. C’era la foto di Janet e Ruffin che cambiava la prospettiva. Ecco: Ruffin non aveva sbagliato bersaglio. L'aveva cambiato. Era stato ingaggiato da John per uccidere la moglie. Ma poi, in qualche modo, Janet era intervenuta nella faccenda e lui aveva fatto il gioco contrario. Diabolico.
E come poteva averlo saputo ? Semplice: tramite le sorelle Marshall. Ruffin aveva parlato dell'incarico alla sua amante, Tina. Tina ne aveva parlato con la sorella Delly. E Delly, a sua volta aveva avvertito la sua padrona. Che invece di denunciare il marito, aveva deciso di approfittarne a suo vantaggio.
Accidenti, che storia, pensò Ben. Ma c’era ancora un problema, un grosso problema da risolvere: non aveva assolutamente prove. Aveva la famosa foto di Janet con Ruffin, certo, ma non valeva praticamente nulla. Era solo la foto di Janet in un bar, e basta. Che l’uomo fosse Trevor Ruffin lo sapeva Ben, ma dalla foto non lo si riconosceva. E sua testimonianza, era davvero troppo poco per mandare in galera una persona importante come Janet Stockton.

* * * * *

L'orologio a muro dell'ingresso segnava le 14 e 36 quando Elliot Perry, finito il suo turno di lavoro, rientrò in casa. Il turno di mattina non era poi così male, se non per il fatto che incominciava alle sei e bisognava svegliarsi prestissimo per arrivare in orario. Sempre meglio comunque del turno di notte. Quello era davvero massacrante. Anche se erano anni che Perry faceva quella vita, non era ancora riuscito ad adattarsi del tutto.
Era stanco, ma non solo fisicamente. Si sentiva ancora più stanco del solito per via di quello che era successo con Tina. L'aveva messa di fronte alle sue responsabilità e lei non aveva neanche provato a protestare. Le aveva detto che fra loro era tutto finito, e che doveva andarsene. E lei se ne era andata senza fiatare. Sul momento si era sentito anche meglio. Come chi riesce a levarsi un peso che lo schiaccia. Ma poi le cose erano cambiate. Tina era sempre nei suoi pensieri e non riusciva a dimenticarla. Ma adesso non poteva più farci niente. L'aveva lasciata andare, anzi, meglio, l'aveva spinta ad andarsene, e adesso non sapeva più nemmeno dov'era.
Si tolse il giaccone impermeabile e lo appoggiò all'appendiabiti. Poi passò in bagno e si tolse le scarpe. Ma forse era giusto così. Non poteva, non doveva perdonarla. E il fatto di aver perso i contatti con lei era la cosa migliore. Non avrebbe più potuto tornare indietro e il tempo avrebbe finalmente richiuso quella ferita. In fondo erano passati solo pochi giorni. Troppo pochi per ritrovare la pace dentro di sè.
Passò di fianco al giradischi e lo accese. Aveva voglia di sentire musica, per cercare di distrarsi e non pensare troppo. Niente roba languida, voleva roba forte, per rintronarsi la testa. Prese un disco di Hard Rock e lo inserì nel lettore CD. Subito il fragore degli strumenti invase la stanza, e lui si trovò a seguirne il ritmo, senza pensare ad altro. Se non altro, funzionava.
Non aveva ancora mangiato, ma non aveva molta fame. Comunque qualcosa doveva buttare giù. Era stanchissimo e sapeva che, se voleva continuare a restare in forma per il suo lavoro, doveva nutrirsi. E in modo adeguato anche. Aprì il frigorifero, ne tolse due pacchetti e li posò sul tavolo. Poi prese un altro pacchetto dal freezer, tolse la carta che lo avvolgeva e lo infilò direttamente nel forno a microonde.
In quel momento suonò il campanello della porta. Elliot Perry andò ad aprire e si trovò di fronte l'inquilina del piano di sotto. Una signora messicana di mezza età con un sedere enorme.
- Senor Perry, scusatemi, ma il mio bambino dorme.
- E allora ? - chiese Perry senza capire bene cosa volesse la donna.
La vicina indicò con la mano l'interno dell'appartamento, dal quale veniva la musica rock a volume piuttosto alto.
- La musica, senor. Il mio bambino è ancora piccolo e a quest'ora deve dormire.
- Ah, già - borbottò Perry. Avrebbe dovuto pensarci, ma in quei giorni era già tanto se si ricordava come si chiamava.
- Se poteste abbassarlo un poco... - continuò la donna.
- Sì, certo. Lo spengo subito.
La donna gli sorrise.
- Gracias, senor.
Non era una piantagrane e aveva tutte le ragioni. Con quel rumore il bambino non poteva riposare. Aveva solo un anno e mezzo e, a quell'ora, fatta la "pappa" aveva proprio bisogno di dormire.
- Di nulla. - rispose Perry.
La donna se ne andò soddisfatta e Perry si affrettò a spegnere il lettore CD. Poi tornò in cucina per togliere il pranzo dal forno e, come per incanto, il pensiero di Tina si riaffacciò prepotente alla sua mente. La cucina era il posto che più gli evocava i ricordi della loro vita insieme. Forse perchè lei, nonostante tutto, era una brava cuoca. O forse perchè c'erano ancora tanti oggetti che gli parlavano di lei.
All'improvviso, senza una ragione apparente, gli venne voglia di andare a vedere che tipo era il gangster con il quale sua moglie se n'era andata. Da quando quell'investigatore privato, Wallace, gli aveva dato la relazione finale delle sue indagini, non l'aveva ancora guardata una sola volta.
Lasciò perdere il pranzo posato sul tavolo e si diresse verso la camera da letto. Aprì l'ultimo cassetto del suo comodino e ne estrasse un fascicoletto piegato in due. Si sedette sul bordo del letto, lo aprì e incominciò a sfogliarlo. Quando arrivò alle foto e vide quella di Trevor Ruffin restò di sasso.
Ma quello era il killer del giudice Stockton ! Non aveva letto molto i giornali, ma aveva visto la televisione e si ricordava perfettamente di aver visto la sua immagine durante il notiziario. Accidenti, che roba. E poi, subito dopo, un'altro pensiero si fece automaticamente strada dentro di lui. Ma Trevor Ruffin, adesso, è morto. E Tina ? Che ne è stato di lei ? Dov'è ora ? Con chi è ?
Il suono invadente del campanello della porta ruppe il silenzio della stanza e bloccò improvvisamente il corso dei suoi pensieri. Che accidenti voleva ancora la signora di sotto ? Aveva spento il suo stereo, no ? Disturbato da quella interruzione, Elliot Perry si alzò, decisamente contrariato, si diresse verso la porta e la aprì con un gesto secco.
- Ciao, Elliot. Mi fai entrare ?
Davanti a lui, con una valigia in mano, gli occhi leggermente rigati dalle lacrime e un sorriso mesto c'era Tina. Era bellissima. Elliot Perry fece un passo verso di lei, scoppiò a piangere e l'abbracciò stretta.

giovedì 1 maggio 2014

L'attentato fallito - 7

Cap. 7 - Domenica


La settimana di lavoro era finita e finalmente, grazie al cielo, era di nuovo domenica. Dopo aver dormito fino a tardi e aver fatto un'abbondante colazione, Ben si sedette sul divano e si mise a sfogliare il giornale del mattino.
Anche se l'attentato era successo solo la sera prima, il Bristow Today riportava già in prima pagina la notizia dell'assassinio del giudice Stockton. Nonostante i titoli a tutta pagina, però, i servizi erano molto scarni perchè preparati in fretta e furia, con poco tempo prima di andare in stampa. C'erano anche alcune grandi fotografie, ma quasi tutte di repertorio: una del giudice Stockton, una della moglie Janet e una di Lincoln Street. L'unica "fresca" era quella con il corpo di Stockton sul selciato, coperto da un lenzuolo bianco.
Ben restò un attimo perplesso, quando vide la foto di Janet Stockton, perchè aveva l'impressione di averla già vista da qualche parte, anche se non ricordava bene quando. Poi lasciò perdere e si diede alla lettura degli articoli. Il giornalista riportava la cronaca dei fatti, così come erano stati ricostruiti, e riferiva le prime dichiarazione della polizia, ma per il momento non erano molto esaurienti.
Ovviamente, gli investigatori avevano già collegato la morte del giudice con la lettera minatoria da lui ricevuta pochi giorni prima. Ma, a parte questo, non avevano ancora nessuna idea sull'autore del delitto. E il giornalista che aveva buttato giù l'articolo, nel riportare le scarne dichiarazioni ufficiali della polizia, si limitava a fare delle semplici congetture e null'altro.
Ben però era un tipo curioso, e gli piaceva saperne di più. Per fortuna era già l'ora del notiziario di metà mattina. Ben si alzò e accese la televisione, sintonizzandosi sul canale locale che lo trasmetteva. La notizia dell'attentato era, ovviamente, il pezzo forte della trasmissione. Il conduttore, dopo aver riepilogato i fatti già riportati dai giornali, avvertì i telespettatori che c'erano notizie fresche sul delitto e diede la linea al collega che si trovava presso la sede della polizia.
La telecamera inquadrò una giornalista bionda con a fianco il capo della polizia di Bristow, Vernon Fleming. La giornalista annunciò che il capitano Fleming aveva delle dichiarazioni importanti da fare e gli cedette il microfono. Ben ascoltava attentissimo.
- Credo di poter dire - esordì Fleming - che il caso Stockton è ormai sostanzialmente risolto.
- Avete già scoperto l'assassino ? - chiese stupita la giornalista, che si aspettava certo delle rivelazioni importanti, ma non di quella portata.
- Riteniamo di sì.
- E chi sarebbe, il killer ?
- Un certo Trevor Ruffin. E' un nome ben noto negli ambienti della malavita.
- Un pezzo grosso dell'organizzazione ?
- No, al contrario. Ci risulta che facesse il killer di professione.
- Un pregiudicato, comunque.
- Sì, certo. Era stato processato più volte, soprattutto qui a Bristow, ma era sempre riuscito a farsi assolvere.
- E adesso ? L'avete di nuovo arrestato ? Ha confessato ?
- Niente di tutto questo. Ruffin è già morto.
La giornalista guardò Fleming con sincero stupore. Quello prometteva di essere un caso complesso, che richiedeva tanto tempo e tanta pazienza per essere risolto. E invece adesso le cose si stavano mettendo a correre più veloce di quanto si sarebbe mai aspettata.
- Morto come ? Ucciso dalla polizia ?
- No di certo. E' stato il caso a farci scoprire tutto.
Fleming raccontò dell'incidente verificatosi la sera prima, poco distante dal luogo dell'attentato, tra un grosso furgone e una piccola utilitaria giapponese. Del corpo senza vita trovato nell'auto accartocciata contro un lampione, riconosciuto come quello di Trevor Ruffin, presunto sicario della malavita. Del fucile di precisione rinvenuto nella vettura, che corrispondeva esattamente a quello usato per colpire Stockton. E dell'inevitabile conclusione alla quale era giunta la polizia.
- Quindi sarebbe stato Ruffin a sparare a Stockton ?
- Sì. Riteniamo di poter giungere a questa conclusione senza ombra di dubbio.
- E... il mandante ?
- Non abbiamo nessuna traccia e temo che non lo scopriremo mai. Ruffin era molto apprezzato nel suo mestiere, ma non aveva preclusioni. Può avere operato per conto di chiunque.
- Voi avete la lettera minatoria ricevuta dal giudice pochi giorni fa, non è vero ? - chiese la giornalista.
- Sì.
- Cosa ne dicono i vostri esperti ?
- Tracce non ne abbiamo trovate. Niente impronte e nessuna possibilità di scoprire qualcosa analizzando la carta, la colla o le lettere ritagliate. Tutto lascia pensare alla vendetta di qualcuno condannato da Stockton. Ma questo non ci aiuta più di tanto.
- Perchè ?
- Sono troppe le persone finite in galera dopo essere state condannate da lui. E' come cercare un ago in un pagliaio.
- Quindi ?
- Quindi si può dire che il caso, almeno dal punto di vista materiale è risolto. Per il mandante, ovviamente, proveremo a continuare le ricerche, ma sarà dura. Speriamo in un po' di fortuna.
- Quella ci vuole sempre - commentò la ragazza comprensiva.
- D’altra parte - continuò Fleming - non si può neppure escludere che Ruffin abbia agito da solo.
- Perchè ?
- Era appena stato processato proprio da Stockton, anche se era stato assolto per insufficienza di prove.
- Allora perchè avrebbe dovuto ucciderlo ?
Fleming allargò le braccia.
- Chi sa mai cosa passa per la testa di persone simili ? Forse odiava il giudice per come lo aveva trattato durante il processo. O forse aveva paura che il giudice si fosse accorto di qualche punto debole nella sua posizione e che decidesse prima o poi di riaprire il processo. Difficile dire.
- Abbiamo delle foto di questo Ruffin da mostrare ai nostri telespettatori ? - chiese la giornalista.
- Sì, certo. - rispose Fleming prendendo delle carte dal ripiano della scrivania.
Pochi minuti dopo, un primo piano di Trevor Ruffin, preso in occasione di uno dei tanti arresti subiti, campeggiava sul video a beneficio di tutti i telespettatori sintonizzati.
- Ehi ! – si disse Ben sgranando gli occhi. - Ma io quello lo conosco ! E' il bel tenebroso. L'amante di Tina Perry. Ma guarda che combinazione...


lunedì 21 aprile 2014

L'attentato fallito - 6

Cap. 6 - Sabato


Il campanello trillò imperioso, rompendo il silenzio della stanza. Ben Wallace si alzò dalla scrivania e andò ad aprire la porta. Era Elliot Perry, puntuale come promesso. Fuori pioveva, con notevole intensità, sin dal primo mattino e l'aria era fredda. L'uomo entrò, strinse la mano a Ben e si tolse l'impermeabile fradicio d'acqua.
- Piove bene, eh ? - disse Ben tanto per dire qualcosa.
- Accidenti, se piove.
Perry cercava di mostrarsi tranquillo, ma probabilmente aveva percepito come stavano le cose, perchè aveva lo sguardo spento e triste. Sembrava persino meno robusto, nonostante il fisico rispettabile. Era come se un peso invisibile incombesse su di lui e lo costringesse a tenere un'andatura un po' strascicata, stanca, con le spalle incurvate. Ben cercò l'ombrello con lo sguardo per farglielo posare nel portaombrelli, ma non lo vide.
- L'ombrello ?
Perry fece un gesto vago con la mano.
- L'ho dimenticato a casa.
- Come siete venuto, fino qui ?
- Con il tram, no ?
Niente taxi, nonostante la giornataccia. Doveva essere di quei tipi che cercano invano di risparmiare i soldi che le mogli buttano allegramente dalla finestra. Col suo lavoro, poi, non doveva certo guadagnare molto. Ben aiutò il suo cliente ad appendere l'impermeabile all'attaccapanni, tenendolo il più possibile disteso perchè si asciugasse un po'. Poi si diresse nello studio, facendogli segno di seguirlo. Perry lo seguì mogio. Quando furono entrambi seduti, Ben aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse il fascicolo che aveva preparato.
- Allora, signor Wallace ? - chiese Perry torcendosi nervosamente le mani.
- Mi dispiace, signor Perry, ma credo proprio che vostra moglie vi tradisca.
L'uomo scrollò il capo sconsolato.
- Me lo sentivo, sapete ? E dire che io l'amo con tutto il cuore.
Ben allargò le braccia.
- Forse il vostro amore è mal riposto.
- Temo che abbiate ragione. - disse con un sussurro.
Perry si portò le mani alla faccia e rimase così per qualche istante. La pelle, di un marrone molto scuro, era imperlata di sudore.
- E’ stato difficile scoprirlo ?
- No, non molto. Cercano di non farsi notare, ma niente di troppo complicato.
- Avete delle foto ?
- Sì. Qualcuna ritrae vostra moglie mentre entra nel portone della casa di lui. Un altro paio li ritrae addirittura insieme.
- E lui chi sarebbe ?
- Il nome non lo so. Ma so che lo chiamano "Iceman" e il nome è tutto un programma.
- Non capisco. Perchè ? Che lavoro fa ?
- Pare che sia nel giro della malavita di Bristow.
Elliot Perry sgranò gli occhi. Tutto si sarebbe aspettato meno che una cosa simile.
- Un gangster...
- Più o meno.
- Oh, mio Dio !
- Non so che ruolo abbia, esattamente, nell'ambiente, ma non è certo l'ultimo dei "tirapiedi". E deve guadagnare un mucchio di soldi. Se davvero vostra moglie è un tipo molto sensibile al denaro, non c'è dubbio che con lui possa permettersi tutto quello che vuole.
- E'... un nero anche lui ?
- No. E' un bianco.
Perry scosse di nuovo il capo. Com'era possibile che sua moglie andasse dietro a un tipo così diverso da lui ? No, non era questo il punto. La domanda da farsi era un'altra: com'era possibile che lui si fosse innamorato perdutamente di una donna così diversa, così lontana dal suo modo di pensare ? Lui non era ricco, certo, ma era una persona onesta, orgoglioso di esserlo. Gli sarebbe piaciuto avere più denaro, ma non a prezzo di certi compromessi. Il suo stipendio era modesto, ma ogni dollaro era guadagnato onestamente, con la forza delle sue braccia e il sudore della sua fronte.
E Tina, invece, che donna era ? Una donna che accettava un killer come amante, solo per poter avere tutti i soldi che voleva. E bianco, per giunta. Ma Tina era così bella che poteva anche permetterselo. Ben capì la tempesta di pensieri che si agitava nella mente del suo cliente e non disse nulla, rispettando il suo silenzio.
Poi Perry rialzò il capo, come se avesse preso una decisione. Non c'era allegria nel suo sguardo, ma se non altro aveva perso la sua tristezza infinita. Gli occhi si animarono di nuova vita. Si capiva che aveva preso una decisione sofferta, ma che lo liberava finalmente da un peso insostenibile. Una decisione che lo avrebbe rimesso in pace con se stesso. Guardò Ben fisso negli occhi.
- Quanto vi devo, per la vostra indagine ?
- Non volete vedere prima la mia relazione ? - disse Ben stupito, indicando il fascicolo davanti a lui.
- No. Non mi interessa.
- Nemmeno le foto ?
- Nemmeno le foto. A che pro ?
Ben capì la scelta dell'uomo e non insistette.
- So quanto basta - continuò Perry - e ho deciso di non soffrire più. Non voglio neanche vedere che faccia ha quel tizio. Non voglio più sapere niente.
- Vi capisco. Comunque vi prego di prenderla ugualmente. - disse Ben, indicando la sua relazione – Io, il mio lavoro l'ho fatto. E’ giusto che ve lo dia.
- Se volete... - disse Perry stringendosi nelle spalle. Prese il fascicolo, lo ripiegò in metà per il lato lungo e se lo infilò nella tasca della giacca. Poi mise una mano nella tasca interna e ne tirò fuori il libretto degli assegni.
- La mia vita con Tina è finita. - concluse a bassa voce - Può andare dove vuole. Fare quello che vuole. Ma fuori da casa mia.
Compilò l'assegno e lo consegnò a Ben.
- Finalmente ho finito di soffrire.

* * * * *

John Stockton alzò il bicchiere davanti a sè e lo fece tintinnare contro quello di Lionel Simmons.
- Alla mia candidatura.
- All'elezione a sindaco. - fece eco Simmons.
Mancava un quarto d'ora all'una e i due amici, comodamente seduti nella sala-bar dell'Old England Club, stavano bevendo il loro aperitivo, in attesa di spostarsi nella sala da pranzo.
- Sai, John, il "capo" ha saputo della faccenda della lettera anonima e del fatto che hai rifiutato la scorta.
- Lo immaginavo. E che cosa ha detto ?
- Ha detto che hai fatto un'ottima figura. Da uomo deciso, che non ha paura di nessuno.
E non sapete ancora tutto, pensò Stockton sorridendo tra sè. Non sapete ancora quello che sto preparando davvero. Altro che uomo deciso, che non ha paura di una lettera anonima. Dopo l'attentato, tutti parleranno di me come un vero eroe. E la candidatura sarà mia.
- Era quello che mi aspettavo. - disse Stockton con un sorriso. Lionel Simmons fissò un attimo l'amico, poi sgranò gli occhi.
- Hai rifiutato la scorta per questo ? Per far colpo su Rex Chapman ?
- Anche. Perchè no ? Tu non avresti fatto altrettanto ?
- Io ? - disse Simmons posandosi una mano sul petto con gesto teatrale. - Io avrei avuto una fifa blu, ecco la verità.
Stockton si strinse nelle spalle cercando di darsi un tono.
- Tu non sei in predicato per diventare sindaco. Io devo mettermi in mostra. E ogni occasione è buona per riuscirci. Lo sai quanto ci tengo, no ?
- Certo che lo so. Ma quella della lettera era una minaccia di morte, John. Non hai un po' di paura che quel tizio metta in atto le sue minacce ?
- Senti, Lionel, non è la prima volta che ricevo una lettera anonima, sai.
- Davvero ? Non lo sapevo.
- E' successo alcuni anni fa, ma la cosa non era stata riportata dai giornali.
- E... come è finita.
- Come vuoi che sia finita ? In niente. Non mi è mai successo niente. Sono solo dei mitomani da strapazzo. Mandano la loro brava letterina di minacce, si sentono orgogliosi della propria intraprendenza, e tutto finisce lì. Non hanno mai il coraggio di passare dalle parole ai fatti.
- Meglio così.
- Certo, che è meglio così - Stockton si chinò verso l'amico e gli strizzò l'occhio - Ma... questo non vuol dire, ovviamente, che non si possa "montare" un po' la storia, se fa comodo. Ti pare ?
- Sei proprio una volpe tu, John.
- Questa è la "mia" occasione, Lionel. Devo approfittare di tutte le circostanze che mi si presentano. E se qualcuno è così sciocco da mandarmi una lettera minatoria proprio in questo periodo, tanto vale che ne approfitti, no ?
- Più che giusto, John.
Simmons subiva da sempre il fascino di una personalità forte come quella di John Stockton e si lasciava convincere abbastanza facilmente dalle sue argomentazioni. D'altra parte, a livello politico, erano una coppia affiatata proprio perchè i ruoli, tra loro due, erano perfettamente segnati. Stockton era il leader. Quello che avrebbe occupato la carica più importante. E Simmons era l'amico fidato che lo aiutava ad emergere, ottenendo poi, lontano dai riflettori, tutte le soddisfazioni che si aspettava di ricevere.
- Comunque il capo era proprio soddisfatto. - continuò Simmons - E' molto ben disposto nei tuoi confronti. E forse la candidatura sarà davvero tua.
- Quando pensi che possa decidere ?
Simmons posò il bicchiere e si grattò la testa pensieroso.
- Beh, sai che a metà dicembre c'è la riunione del comitato direttivo, a Nelson.
- Sì, lo so. Ma da che lo conosco io, il "capo" non ha mai aspettato le riunioni del comitato direttivo, per decidere.
- Ma è il comitato, che sceglie le candidature, John. - obbiettò Simmons.
- Sì, certo, come no. Sulla carta. Ma lo sai anche tu che, di fatto, è sempre Rex che decide. Lui sceglie il candidato e quando si riunisce il comitato c'è già il suo bravo nominativo pronto. E nessuno è così pazzo da mettersi contro il "capo", al momento delle votazioni.
- Sì. Anche questo è vero.
Simmons andò col pensiero alle ultime votazioni alle quali aveva preso parte e dovette convenire che quello che diceva l'amico era proprio vero. Rex Chapman era molto bravo a rispettare la forma. Ma era ancora più bravo a manovrare il comitato, in modo che votasse sempre come voleva lui. E non sbagliava un colpo. Non per niente era il capo indiscusso del loro partito, in quello Stato, ormai da molti anni, e nessuno aveva mai neppure pensato di insidiare la sua posizione.
- Perciò stagli dietro al "capo". - concluse Stockton - E cerca di convincerlo.
- Puoi giurarci, che lo farò.
- Perchè questa volta, caro Lionel, il candidato devo essere io. A qualunque costo.


* * * * *

Trevor Ruffin era un tipo efficiente e metodico. D'altra parte non si poteva fare quel mestiere per anni, e con successo, senza possedere quelle caratteristiche. Aveva appena finito di controllare per la terza volta la funzionalità del fucile di precisione che si era procurato e tutto era perfettamente a posto. Il fucile non era suo, perchè non gli piaceva tenere certe cose "compromettenti" in casa propria. E con ragione.
Ruffin era già stato arrestato e processato più di una volta. Ma aveva sempre finito per uscirne pulito, proprio perchè la polizia non era mai riuscita a trovare niente che potesse davvero incastrarlo. Nessuna arma, nessuna impronta, nessuna prova. Tutto merito della sua prudenza e della sua organizzazione. Il fatto era, molto semplicemente, che Ruffin aveva un mucchio di amicizie e di conoscenze. Perciò non aveva nessuna difficoltà a lasciare le varie armi, o qualsiasi altro oggetto che gli fosse utile per il suo lavoro, direttamente in casa di qualcun'altro. Salvo poi riprenderselo indietro quando ne aveva bisogno e per lo stretto tempo che gli era necessario. Come ora con il fucile di precisione, per esempio.
Ruffin guardò l'orologio: le otto meno qualche minuto. Ora di muoversi. Con gesti rapidi e sicuri il killer rimontò i quattro pezzi nei quali aveva scomposto l'arma e infilò il fucile completo dentro una custodia da strumento musicale che usava spesso in casi del genere. Un po' banale come copertura, ma per i brevi tragitti era ancora il metodo migliore. L'aveva già utilizzato, in passato, e aveva sempre funzionato a meraviglia.
Si infilò il giaccone di pelo, adatto al freddo che era calato sulla città, e uscì dal suo appartamento. Fuori piovigginava appena e non si diede la pena di prendere l'ombrello. Attraversò la strada e si diresse verso l'automobile, parcheggiata dalla parte opposta. L'aveva appena rubata, un paio di ore prima, nel parcheggio di un grande magazzino lì vicino. Era stato un gioco da ragazzi, per uno come lui. Era una piccola auto giapponese, come se ne vedevano tante, ormai, per le strade d'america. Il colore era blu scuro, l'ideale per non essere notato di sera.
Salì sull'auto, mise in moto e si avviò a velocità moderata verso il centro della città. Aveva calcolato che da casa sua al luogo dell'appuntamento non ci volessero più di dieci minuti, ma a Ruffin piaceva arrivare in anticipo. Non troppo, ovviamente, per evitare che qualcuno lo notasse mentre era fermo nell'abitacolo davanti alla sede della banca.

* * * * *

Il giudice Stockton era già vestito e attendeva nervosamente, camminando nell'ampio salone del loro appartamento. Il notiziario della TBS era finito e non aveva altro da fare se non aspettare che Janet fosse pronta. Il nervosismo ovviamente era dovuto a quello che sarebbe successo di lì a poco, ma sua moglie lo avrebbe sicuramente attribuito al suo ritardo nel vestirsi, per cui non si dava pensiero di nasconderlo.
Janet Stockton era ancora nella sua stanza da letto insieme con Delly, la cameriera, che la aiutava a sistemare le ultime cose. Janet teneva molto alle serate mondane e faceva sempre in modo di essere al massimo della sua eleganza. Non un filo doveva essere fuori posto e non poche volte aveva deciso di cambiarsi totalmente d'abito, proprio all'ultimo momento, solo perchè non era soddisfatta di un certo accostamento di colori.
John, come tanti altri mariti, cercava di ignorare quelle scene e se si arrabbiava cercava di tenere la cosa dentro di sè. Aveva imparato che, tutto sommato, arrivare in ritardo era ancora preferibile a rovinarsi il fegato senza costrutto. Quella sera, però, il programma era ben diverso dal solito e, se il diavolo non ci metteva la coda, sarebbe stata davvero l'ultima scena di quel genere.
Guardò l'ora: le 8,28.
Si stava facendo tardi, anche perchè al sabato sera il traffico faceva presto a diventare caotico. Con la pioggia ed il freddo, poi, c'era molta più gente che finiva per prendere l'auto. Fosse stata una serata normale, il giudice Stockton avrebbe sicuramente incominciato ad imprecare tra sè. Ma quella non era una serata normale.
Andò col pensiero all'effetto che avrebbe avuto sull'opinione pubblica il falso attentato contro la sua persona e il suo nervosismo quasi cessò del tutto. Un piano davvero perfetto il suo. In un colpo solo si sarebbe liberato di quella rompiscatole della moglie e avrebbe posto le basi per una luminosa e, ne era certo, inarrestabile carriera politica.

* * * * *

Trevor Ruffin era seduto tranquillamente sul sedile della sua auto e aspettava. Era arrivato verso le otto e un quarto e aveva trovato facilmente da parcheggiare, proprio davanti alla sede della First National Bank. Di fronte, al di là dell'ampio viale alberato, c'era il numero 89 di Lincoln Street, da cui sarebbero usciti John Stockton e sua moglie.
Il fucile era posato sul sedile a fianco, coperto da un plaid, pronto per essere usato. Ormai era quasi mezz'ora che aspettava, ma Ruffin non aveva fretta, nè dimostrava impazienza. Aspettare faceva parte del suo mestiere e lui sapeva farlo senza innervosirsi.
Guardò ancora l'orologio sul cruscotto: le 8,41. Aveva concordato di aspettare fino alle nove, dopodichè, se non vedeva nessuno, voleva dire che qualcosa era andato storto e se ne sarebbe andato. Niente di grave, comunque. Era già successo altre volte, nel suo lavoro, di dover rimandare, ma non per questo aveva rinunciato ai suoi incarichi. Ruffin non aveva "mai" mancato di portare a termine un "contratto" e ne era particolarmente orgoglioso. Avrebbe semplicemente riprovato un'altra volta.

* * * * *

- Caro... eccomi, sono pronta - disse infine Janet Stockton uscendo dalla stanza.
Era veramente molto elegante, in un abito lungo, moderatamente scollato, di un delicato color verde salvia, coperto sulle spalle da uno scialle bianco. Ma il marito non era certo nelle condizioni migliori per poterlo apprezzare.
- Era ora, accidenti. - borbottò.
Delly, in piedi dietro alla sua padrona, la stava aiutando ad indossare la pelliccia di visone.
- Non fare quella faccia, John. Non è mica tardi, no ?
- Figuriamoci ! Andiamo, va.
John Stockton uscì dalla porta e si incamminò con passo veloce per le scale. Abitavano solo al secondo piano e quando dovevano scendere non usavano quasi mai l'ascensore. John Stockton aveva tenuto conto di questo fatto, nell'elaborare il suo piano, perchè era necessario che lui scendesse le scale e uscisse fuori sul marciapiede prima di lei.
Arrivò al portone del palazzo e lo aprì, mentre sentiva il rumore dei tacchi della moglie, che scendeva le scale dietro di lui. Guardò fugacemente l'ora, mentre prendeva una sigaretta e la infilava tra le labbra: le 8,46.
Guardò dall'altra parte della strada ma era buio e non vide nulla di particolare. D'altra parte la strada era ampia e lui non sapeva che tipo di auto avesse il killer. Era certo però che Trevor Ruffin fosse al suo posto. Era un professionista in gamba, lui. E non aveva motivo di dubitare della sua efficienza.
Janet era arrivata in fondo agli scalini e stava attraversando l'atrio. Era il momento.
John prese l'accendino dalla tasca e fece per accenderlo, ma senza riuscirci. Con tutti i sensi all'erta, sentì i passi della moglie che arrivava... Che apriva il portone... Che usciva sul marciapiede... Adesso era proprio dietro di lui.
Ora !
L'androne alle loro spalle era vividamente illuminato e le due figure costituivano un bersaglio perfetto per il killer. Non avrebbe potuto sbagliare. Con un gesto apparentemente maldestro, il giudice Stockton si fece scappare di mano l'accendino e si chino rapidamente per raccoglierlo. Restò chinato per un attimo, aspettandosi di sentire lo sparo. Ma non sentì nulla.
Rimase ancora per qualche istante in quella posizione, fingendo di non riuscire ad afferrarlo, ma la detonazione non venne.
Maledizione, si chiese, cosa diavolo era andato storto?
Arrabbiatissimo afferrò finalmente l'accendino e si alzò lentamente, guardando fissamente davanti a sè, in direzione della Banca dove doveva esserci Trevor Ruffin. Era frastornato e cercava invano di dominare la sua irritazione. Ma non ebbe il tempo di fare altro.
Un colpo secco esplose proprio nel momento in cui John Stockton si alzava e un fiotto di sangue uscì prepotente dal suo petto. Si portò le mani nel punto in cui era stato colpito e rantolò per il dolore, mentre un'espressione di incredulità si dipingeva sul suo volto.
Cosa, cosa diavolo era successo ?
Poi la sua mente si chiuse e i suoi pensieri svanirono per sempre. La morte lo raggiunse in pochi attimi e Stockton si accasciò lentamente sul marciapiede, come una marionetta alla quale hanno tagliato i fili. Janet, in piedi di fianco a lui, lo vide cadere e proruppe in un urlo isterico.
Erano le 8 e 48.

* * * * *

Trevor Ruffin buttò il fucile dentro la custodia, posata sul sedile posteriore, e la richiuse. Poi con gesti rapidi mise in moto l'auto e si allontanò a velocità sostenuta, ma non eccessiva. Aveva bisogno di togliersi di torno il più presto possibile, ma non voleva certo prendersi una multa per eccesso di velocità.
A circa 500 metri dal luogo dell'attentato si trovò ad attraversare un incrocio male illuminato, per colpa di un paio di lampioni rotti. Per questo, nonostante il semaforo fosse verde, decise istintivamente di ridurre la velocità, guardando alla sua destra, per vedere se stava sopraggiungendo qualcuno. Non c'era nessuno. Fece per accelerare nuovamente, ma ormai si trovava al centro dell'incrocio con il semaforo già sul giallo.
Improvvisamente alla sua sinistra arrivò a velocità sostenuta un grosso furgone. L'autista del camioncino vide la piccola utilitaria blu scuro solo all'ultimo momento e tentò di frenare quando ormai era troppo tardi. Ruffin sentì lo stridore dei freni e si voltò da quella parte, ma ormai non poteva fare più nulla.
L'impatto fu terrificante.
L'auto di Ruffin venne colpita violentemente sul fianco sinistro, proprio all'altezza del sedile del guidatore e finì contro uno dei lampioni spenti sul lato opposto della strada, accartocciandosi letteralmente intorno ad esso. Trevor Ruffin morì sul colpo, con la colonna vertebrale spezzata, quasi senza essersi reso conto di quello che era accaduto.
Anche l'orologio del cruscotto si ruppe, fermandosi sull'ora della sua morte: le 9,04.