lunedì 21 aprile 2014

L'attentato fallito - 6

Cap. 6 - Sabato


Il campanello trillò imperioso, rompendo il silenzio della stanza. Ben Wallace si alzò dalla scrivania e andò ad aprire la porta. Era Elliot Perry, puntuale come promesso. Fuori pioveva, con notevole intensità, sin dal primo mattino e l'aria era fredda. L'uomo entrò, strinse la mano a Ben e si tolse l'impermeabile fradicio d'acqua.
- Piove bene, eh ? - disse Ben tanto per dire qualcosa.
- Accidenti, se piove.
Perry cercava di mostrarsi tranquillo, ma probabilmente aveva percepito come stavano le cose, perchè aveva lo sguardo spento e triste. Sembrava persino meno robusto, nonostante il fisico rispettabile. Era come se un peso invisibile incombesse su di lui e lo costringesse a tenere un'andatura un po' strascicata, stanca, con le spalle incurvate. Ben cercò l'ombrello con lo sguardo per farglielo posare nel portaombrelli, ma non lo vide.
- L'ombrello ?
Perry fece un gesto vago con la mano.
- L'ho dimenticato a casa.
- Come siete venuto, fino qui ?
- Con il tram, no ?
Niente taxi, nonostante la giornataccia. Doveva essere di quei tipi che cercano invano di risparmiare i soldi che le mogli buttano allegramente dalla finestra. Col suo lavoro, poi, non doveva certo guadagnare molto. Ben aiutò il suo cliente ad appendere l'impermeabile all'attaccapanni, tenendolo il più possibile disteso perchè si asciugasse un po'. Poi si diresse nello studio, facendogli segno di seguirlo. Perry lo seguì mogio. Quando furono entrambi seduti, Ben aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse il fascicolo che aveva preparato.
- Allora, signor Wallace ? - chiese Perry torcendosi nervosamente le mani.
- Mi dispiace, signor Perry, ma credo proprio che vostra moglie vi tradisca.
L'uomo scrollò il capo sconsolato.
- Me lo sentivo, sapete ? E dire che io l'amo con tutto il cuore.
Ben allargò le braccia.
- Forse il vostro amore è mal riposto.
- Temo che abbiate ragione. - disse con un sussurro.
Perry si portò le mani alla faccia e rimase così per qualche istante. La pelle, di un marrone molto scuro, era imperlata di sudore.
- E’ stato difficile scoprirlo ?
- No, non molto. Cercano di non farsi notare, ma niente di troppo complicato.
- Avete delle foto ?
- Sì. Qualcuna ritrae vostra moglie mentre entra nel portone della casa di lui. Un altro paio li ritrae addirittura insieme.
- E lui chi sarebbe ?
- Il nome non lo so. Ma so che lo chiamano "Iceman" e il nome è tutto un programma.
- Non capisco. Perchè ? Che lavoro fa ?
- Pare che sia nel giro della malavita di Bristow.
Elliot Perry sgranò gli occhi. Tutto si sarebbe aspettato meno che una cosa simile.
- Un gangster...
- Più o meno.
- Oh, mio Dio !
- Non so che ruolo abbia, esattamente, nell'ambiente, ma non è certo l'ultimo dei "tirapiedi". E deve guadagnare un mucchio di soldi. Se davvero vostra moglie è un tipo molto sensibile al denaro, non c'è dubbio che con lui possa permettersi tutto quello che vuole.
- E'... un nero anche lui ?
- No. E' un bianco.
Perry scosse di nuovo il capo. Com'era possibile che sua moglie andasse dietro a un tipo così diverso da lui ? No, non era questo il punto. La domanda da farsi era un'altra: com'era possibile che lui si fosse innamorato perdutamente di una donna così diversa, così lontana dal suo modo di pensare ? Lui non era ricco, certo, ma era una persona onesta, orgoglioso di esserlo. Gli sarebbe piaciuto avere più denaro, ma non a prezzo di certi compromessi. Il suo stipendio era modesto, ma ogni dollaro era guadagnato onestamente, con la forza delle sue braccia e il sudore della sua fronte.
E Tina, invece, che donna era ? Una donna che accettava un killer come amante, solo per poter avere tutti i soldi che voleva. E bianco, per giunta. Ma Tina era così bella che poteva anche permetterselo. Ben capì la tempesta di pensieri che si agitava nella mente del suo cliente e non disse nulla, rispettando il suo silenzio.
Poi Perry rialzò il capo, come se avesse preso una decisione. Non c'era allegria nel suo sguardo, ma se non altro aveva perso la sua tristezza infinita. Gli occhi si animarono di nuova vita. Si capiva che aveva preso una decisione sofferta, ma che lo liberava finalmente da un peso insostenibile. Una decisione che lo avrebbe rimesso in pace con se stesso. Guardò Ben fisso negli occhi.
- Quanto vi devo, per la vostra indagine ?
- Non volete vedere prima la mia relazione ? - disse Ben stupito, indicando il fascicolo davanti a lui.
- No. Non mi interessa.
- Nemmeno le foto ?
- Nemmeno le foto. A che pro ?
Ben capì la scelta dell'uomo e non insistette.
- So quanto basta - continuò Perry - e ho deciso di non soffrire più. Non voglio neanche vedere che faccia ha quel tizio. Non voglio più sapere niente.
- Vi capisco. Comunque vi prego di prenderla ugualmente. - disse Ben, indicando la sua relazione – Io, il mio lavoro l'ho fatto. E’ giusto che ve lo dia.
- Se volete... - disse Perry stringendosi nelle spalle. Prese il fascicolo, lo ripiegò in metà per il lato lungo e se lo infilò nella tasca della giacca. Poi mise una mano nella tasca interna e ne tirò fuori il libretto degli assegni.
- La mia vita con Tina è finita. - concluse a bassa voce - Può andare dove vuole. Fare quello che vuole. Ma fuori da casa mia.
Compilò l'assegno e lo consegnò a Ben.
- Finalmente ho finito di soffrire.

* * * * *

John Stockton alzò il bicchiere davanti a sè e lo fece tintinnare contro quello di Lionel Simmons.
- Alla mia candidatura.
- All'elezione a sindaco. - fece eco Simmons.
Mancava un quarto d'ora all'una e i due amici, comodamente seduti nella sala-bar dell'Old England Club, stavano bevendo il loro aperitivo, in attesa di spostarsi nella sala da pranzo.
- Sai, John, il "capo" ha saputo della faccenda della lettera anonima e del fatto che hai rifiutato la scorta.
- Lo immaginavo. E che cosa ha detto ?
- Ha detto che hai fatto un'ottima figura. Da uomo deciso, che non ha paura di nessuno.
E non sapete ancora tutto, pensò Stockton sorridendo tra sè. Non sapete ancora quello che sto preparando davvero. Altro che uomo deciso, che non ha paura di una lettera anonima. Dopo l'attentato, tutti parleranno di me come un vero eroe. E la candidatura sarà mia.
- Era quello che mi aspettavo. - disse Stockton con un sorriso. Lionel Simmons fissò un attimo l'amico, poi sgranò gli occhi.
- Hai rifiutato la scorta per questo ? Per far colpo su Rex Chapman ?
- Anche. Perchè no ? Tu non avresti fatto altrettanto ?
- Io ? - disse Simmons posandosi una mano sul petto con gesto teatrale. - Io avrei avuto una fifa blu, ecco la verità.
Stockton si strinse nelle spalle cercando di darsi un tono.
- Tu non sei in predicato per diventare sindaco. Io devo mettermi in mostra. E ogni occasione è buona per riuscirci. Lo sai quanto ci tengo, no ?
- Certo che lo so. Ma quella della lettera era una minaccia di morte, John. Non hai un po' di paura che quel tizio metta in atto le sue minacce ?
- Senti, Lionel, non è la prima volta che ricevo una lettera anonima, sai.
- Davvero ? Non lo sapevo.
- E' successo alcuni anni fa, ma la cosa non era stata riportata dai giornali.
- E... come è finita.
- Come vuoi che sia finita ? In niente. Non mi è mai successo niente. Sono solo dei mitomani da strapazzo. Mandano la loro brava letterina di minacce, si sentono orgogliosi della propria intraprendenza, e tutto finisce lì. Non hanno mai il coraggio di passare dalle parole ai fatti.
- Meglio così.
- Certo, che è meglio così - Stockton si chinò verso l'amico e gli strizzò l'occhio - Ma... questo non vuol dire, ovviamente, che non si possa "montare" un po' la storia, se fa comodo. Ti pare ?
- Sei proprio una volpe tu, John.
- Questa è la "mia" occasione, Lionel. Devo approfittare di tutte le circostanze che mi si presentano. E se qualcuno è così sciocco da mandarmi una lettera minatoria proprio in questo periodo, tanto vale che ne approfitti, no ?
- Più che giusto, John.
Simmons subiva da sempre il fascino di una personalità forte come quella di John Stockton e si lasciava convincere abbastanza facilmente dalle sue argomentazioni. D'altra parte, a livello politico, erano una coppia affiatata proprio perchè i ruoli, tra loro due, erano perfettamente segnati. Stockton era il leader. Quello che avrebbe occupato la carica più importante. E Simmons era l'amico fidato che lo aiutava ad emergere, ottenendo poi, lontano dai riflettori, tutte le soddisfazioni che si aspettava di ricevere.
- Comunque il capo era proprio soddisfatto. - continuò Simmons - E' molto ben disposto nei tuoi confronti. E forse la candidatura sarà davvero tua.
- Quando pensi che possa decidere ?
Simmons posò il bicchiere e si grattò la testa pensieroso.
- Beh, sai che a metà dicembre c'è la riunione del comitato direttivo, a Nelson.
- Sì, lo so. Ma da che lo conosco io, il "capo" non ha mai aspettato le riunioni del comitato direttivo, per decidere.
- Ma è il comitato, che sceglie le candidature, John. - obbiettò Simmons.
- Sì, certo, come no. Sulla carta. Ma lo sai anche tu che, di fatto, è sempre Rex che decide. Lui sceglie il candidato e quando si riunisce il comitato c'è già il suo bravo nominativo pronto. E nessuno è così pazzo da mettersi contro il "capo", al momento delle votazioni.
- Sì. Anche questo è vero.
Simmons andò col pensiero alle ultime votazioni alle quali aveva preso parte e dovette convenire che quello che diceva l'amico era proprio vero. Rex Chapman era molto bravo a rispettare la forma. Ma era ancora più bravo a manovrare il comitato, in modo che votasse sempre come voleva lui. E non sbagliava un colpo. Non per niente era il capo indiscusso del loro partito, in quello Stato, ormai da molti anni, e nessuno aveva mai neppure pensato di insidiare la sua posizione.
- Perciò stagli dietro al "capo". - concluse Stockton - E cerca di convincerlo.
- Puoi giurarci, che lo farò.
- Perchè questa volta, caro Lionel, il candidato devo essere io. A qualunque costo.


* * * * *

Trevor Ruffin era un tipo efficiente e metodico. D'altra parte non si poteva fare quel mestiere per anni, e con successo, senza possedere quelle caratteristiche. Aveva appena finito di controllare per la terza volta la funzionalità del fucile di precisione che si era procurato e tutto era perfettamente a posto. Il fucile non era suo, perchè non gli piaceva tenere certe cose "compromettenti" in casa propria. E con ragione.
Ruffin era già stato arrestato e processato più di una volta. Ma aveva sempre finito per uscirne pulito, proprio perchè la polizia non era mai riuscita a trovare niente che potesse davvero incastrarlo. Nessuna arma, nessuna impronta, nessuna prova. Tutto merito della sua prudenza e della sua organizzazione. Il fatto era, molto semplicemente, che Ruffin aveva un mucchio di amicizie e di conoscenze. Perciò non aveva nessuna difficoltà a lasciare le varie armi, o qualsiasi altro oggetto che gli fosse utile per il suo lavoro, direttamente in casa di qualcun'altro. Salvo poi riprenderselo indietro quando ne aveva bisogno e per lo stretto tempo che gli era necessario. Come ora con il fucile di precisione, per esempio.
Ruffin guardò l'orologio: le otto meno qualche minuto. Ora di muoversi. Con gesti rapidi e sicuri il killer rimontò i quattro pezzi nei quali aveva scomposto l'arma e infilò il fucile completo dentro una custodia da strumento musicale che usava spesso in casi del genere. Un po' banale come copertura, ma per i brevi tragitti era ancora il metodo migliore. L'aveva già utilizzato, in passato, e aveva sempre funzionato a meraviglia.
Si infilò il giaccone di pelo, adatto al freddo che era calato sulla città, e uscì dal suo appartamento. Fuori piovigginava appena e non si diede la pena di prendere l'ombrello. Attraversò la strada e si diresse verso l'automobile, parcheggiata dalla parte opposta. L'aveva appena rubata, un paio di ore prima, nel parcheggio di un grande magazzino lì vicino. Era stato un gioco da ragazzi, per uno come lui. Era una piccola auto giapponese, come se ne vedevano tante, ormai, per le strade d'america. Il colore era blu scuro, l'ideale per non essere notato di sera.
Salì sull'auto, mise in moto e si avviò a velocità moderata verso il centro della città. Aveva calcolato che da casa sua al luogo dell'appuntamento non ci volessero più di dieci minuti, ma a Ruffin piaceva arrivare in anticipo. Non troppo, ovviamente, per evitare che qualcuno lo notasse mentre era fermo nell'abitacolo davanti alla sede della banca.

* * * * *

Il giudice Stockton era già vestito e attendeva nervosamente, camminando nell'ampio salone del loro appartamento. Il notiziario della TBS era finito e non aveva altro da fare se non aspettare che Janet fosse pronta. Il nervosismo ovviamente era dovuto a quello che sarebbe successo di lì a poco, ma sua moglie lo avrebbe sicuramente attribuito al suo ritardo nel vestirsi, per cui non si dava pensiero di nasconderlo.
Janet Stockton era ancora nella sua stanza da letto insieme con Delly, la cameriera, che la aiutava a sistemare le ultime cose. Janet teneva molto alle serate mondane e faceva sempre in modo di essere al massimo della sua eleganza. Non un filo doveva essere fuori posto e non poche volte aveva deciso di cambiarsi totalmente d'abito, proprio all'ultimo momento, solo perchè non era soddisfatta di un certo accostamento di colori.
John, come tanti altri mariti, cercava di ignorare quelle scene e se si arrabbiava cercava di tenere la cosa dentro di sè. Aveva imparato che, tutto sommato, arrivare in ritardo era ancora preferibile a rovinarsi il fegato senza costrutto. Quella sera, però, il programma era ben diverso dal solito e, se il diavolo non ci metteva la coda, sarebbe stata davvero l'ultima scena di quel genere.
Guardò l'ora: le 8,28.
Si stava facendo tardi, anche perchè al sabato sera il traffico faceva presto a diventare caotico. Con la pioggia ed il freddo, poi, c'era molta più gente che finiva per prendere l'auto. Fosse stata una serata normale, il giudice Stockton avrebbe sicuramente incominciato ad imprecare tra sè. Ma quella non era una serata normale.
Andò col pensiero all'effetto che avrebbe avuto sull'opinione pubblica il falso attentato contro la sua persona e il suo nervosismo quasi cessò del tutto. Un piano davvero perfetto il suo. In un colpo solo si sarebbe liberato di quella rompiscatole della moglie e avrebbe posto le basi per una luminosa e, ne era certo, inarrestabile carriera politica.

* * * * *

Trevor Ruffin era seduto tranquillamente sul sedile della sua auto e aspettava. Era arrivato verso le otto e un quarto e aveva trovato facilmente da parcheggiare, proprio davanti alla sede della First National Bank. Di fronte, al di là dell'ampio viale alberato, c'era il numero 89 di Lincoln Street, da cui sarebbero usciti John Stockton e sua moglie.
Il fucile era posato sul sedile a fianco, coperto da un plaid, pronto per essere usato. Ormai era quasi mezz'ora che aspettava, ma Ruffin non aveva fretta, nè dimostrava impazienza. Aspettare faceva parte del suo mestiere e lui sapeva farlo senza innervosirsi.
Guardò ancora l'orologio sul cruscotto: le 8,41. Aveva concordato di aspettare fino alle nove, dopodichè, se non vedeva nessuno, voleva dire che qualcosa era andato storto e se ne sarebbe andato. Niente di grave, comunque. Era già successo altre volte, nel suo lavoro, di dover rimandare, ma non per questo aveva rinunciato ai suoi incarichi. Ruffin non aveva "mai" mancato di portare a termine un "contratto" e ne era particolarmente orgoglioso. Avrebbe semplicemente riprovato un'altra volta.

* * * * *

- Caro... eccomi, sono pronta - disse infine Janet Stockton uscendo dalla stanza.
Era veramente molto elegante, in un abito lungo, moderatamente scollato, di un delicato color verde salvia, coperto sulle spalle da uno scialle bianco. Ma il marito non era certo nelle condizioni migliori per poterlo apprezzare.
- Era ora, accidenti. - borbottò.
Delly, in piedi dietro alla sua padrona, la stava aiutando ad indossare la pelliccia di visone.
- Non fare quella faccia, John. Non è mica tardi, no ?
- Figuriamoci ! Andiamo, va.
John Stockton uscì dalla porta e si incamminò con passo veloce per le scale. Abitavano solo al secondo piano e quando dovevano scendere non usavano quasi mai l'ascensore. John Stockton aveva tenuto conto di questo fatto, nell'elaborare il suo piano, perchè era necessario che lui scendesse le scale e uscisse fuori sul marciapiede prima di lei.
Arrivò al portone del palazzo e lo aprì, mentre sentiva il rumore dei tacchi della moglie, che scendeva le scale dietro di lui. Guardò fugacemente l'ora, mentre prendeva una sigaretta e la infilava tra le labbra: le 8,46.
Guardò dall'altra parte della strada ma era buio e non vide nulla di particolare. D'altra parte la strada era ampia e lui non sapeva che tipo di auto avesse il killer. Era certo però che Trevor Ruffin fosse al suo posto. Era un professionista in gamba, lui. E non aveva motivo di dubitare della sua efficienza.
Janet era arrivata in fondo agli scalini e stava attraversando l'atrio. Era il momento.
John prese l'accendino dalla tasca e fece per accenderlo, ma senza riuscirci. Con tutti i sensi all'erta, sentì i passi della moglie che arrivava... Che apriva il portone... Che usciva sul marciapiede... Adesso era proprio dietro di lui.
Ora !
L'androne alle loro spalle era vividamente illuminato e le due figure costituivano un bersaglio perfetto per il killer. Non avrebbe potuto sbagliare. Con un gesto apparentemente maldestro, il giudice Stockton si fece scappare di mano l'accendino e si chino rapidamente per raccoglierlo. Restò chinato per un attimo, aspettandosi di sentire lo sparo. Ma non sentì nulla.
Rimase ancora per qualche istante in quella posizione, fingendo di non riuscire ad afferrarlo, ma la detonazione non venne.
Maledizione, si chiese, cosa diavolo era andato storto?
Arrabbiatissimo afferrò finalmente l'accendino e si alzò lentamente, guardando fissamente davanti a sè, in direzione della Banca dove doveva esserci Trevor Ruffin. Era frastornato e cercava invano di dominare la sua irritazione. Ma non ebbe il tempo di fare altro.
Un colpo secco esplose proprio nel momento in cui John Stockton si alzava e un fiotto di sangue uscì prepotente dal suo petto. Si portò le mani nel punto in cui era stato colpito e rantolò per il dolore, mentre un'espressione di incredulità si dipingeva sul suo volto.
Cosa, cosa diavolo era successo ?
Poi la sua mente si chiuse e i suoi pensieri svanirono per sempre. La morte lo raggiunse in pochi attimi e Stockton si accasciò lentamente sul marciapiede, come una marionetta alla quale hanno tagliato i fili. Janet, in piedi di fianco a lui, lo vide cadere e proruppe in un urlo isterico.
Erano le 8 e 48.

* * * * *

Trevor Ruffin buttò il fucile dentro la custodia, posata sul sedile posteriore, e la richiuse. Poi con gesti rapidi mise in moto l'auto e si allontanò a velocità sostenuta, ma non eccessiva. Aveva bisogno di togliersi di torno il più presto possibile, ma non voleva certo prendersi una multa per eccesso di velocità.
A circa 500 metri dal luogo dell'attentato si trovò ad attraversare un incrocio male illuminato, per colpa di un paio di lampioni rotti. Per questo, nonostante il semaforo fosse verde, decise istintivamente di ridurre la velocità, guardando alla sua destra, per vedere se stava sopraggiungendo qualcuno. Non c'era nessuno. Fece per accelerare nuovamente, ma ormai si trovava al centro dell'incrocio con il semaforo già sul giallo.
Improvvisamente alla sua sinistra arrivò a velocità sostenuta un grosso furgone. L'autista del camioncino vide la piccola utilitaria blu scuro solo all'ultimo momento e tentò di frenare quando ormai era troppo tardi. Ruffin sentì lo stridore dei freni e si voltò da quella parte, ma ormai non poteva fare più nulla.
L'impatto fu terrificante.
L'auto di Ruffin venne colpita violentemente sul fianco sinistro, proprio all'altezza del sedile del guidatore e finì contro uno dei lampioni spenti sul lato opposto della strada, accartocciandosi letteralmente intorno ad esso. Trevor Ruffin morì sul colpo, con la colonna vertebrale spezzata, quasi senza essersi reso conto di quello che era accaduto.
Anche l'orologio del cruscotto si ruppe, fermandosi sull'ora della sua morte: le 9,04.


sabato 12 aprile 2014

L'attentato fallito - 5

Cap. 5 - Giovedì


Le indagini di Ben Wallace su Tina Perry si conclusero con l'ultimo pedinamento del mercoledì pomeriggio ed il giovedì mattina, di buon ora, Ben, si mise al lavoro, insieme a Pico, per la stesura definitiva della sua relazione. l materiale raccolto non lasciava alcun dubbio su come stavano le cose: Tina Perry aveva effettivamente un amante.
A suo modo l’uomo era un bel tipo, anzi un bel tipaccio. Alto, atletico, un viso abbastanza bello con un'espressione da duro, deciso. Peccato che facesse un mestiere davvero poco raccomandabile. Era nella malavita organizzata, e pareva che fosse un tipo importante, molto rispettato nell'ambiente. Lo chiamavano addirittura "Iceman", l'uomo di ghiaccio, per la sua freddezza. Il nome esatto non lo sapeva, ma non aveva molta importanza. Era uno di quei tipi che facevano avanti e indietro dalla prigione, ma adesso era fuori e ne approfittava per spassarsela con la moglie di Elliot Perry.
Ben aveva preso parecchie foto con la fotocamera digitale, alcune piuttosto ben riuscite, altre molto meno, come spesso succedeva, e le aveva inserite nella sua relazione in modo da completarla in modo più che soddisfacente. Sempre che soddisfacente si potesse considerare il risultato finale del suo lavoro. Il povero Elliot Perry non sarebbe stato molto contento di sapere che la moglie lo tradiva, con un mezzo gangster per di più, e il fatto che Ben avesse lavorato bene per scoprirlo non lo avrebbe reso certamente più felice. Sarebbe stato uno di quei casi della vita, apparentemente paradossali, in cui una persona preferirebbe aver speso i suoi soldi per nulla. Ma in effetti il mestiere di Ben finiva molto spesso per essere paradossale.
Ben terminò il lavoro in meno di un'ora. Ne uscì un fascicoletto di una decina di pagine che ripose nel cassetto della scrivania e che avrebbe poi consegnato al cliente. Poi prese il telefono e chiamò Elliot Perry per fissare un appuntamento, riuscendo, con molto tatto, e non comunicargli l’esito delle sue ricerche. Decisero di incontrarsi il sabato mattina alle 9,30.
Quindi, posata la cornetta, Ben prese il giornale e si concesse un po’ di relax. Tra una notizia e l’altra, la sua attenzione fu attirata dall’articolo che parlava della lettera minatoria ricevuta dal giudice Stockton. Ben lo conosceva piuttosto bene, anche se solo di vista, e non aveva una grande stima di lui. Lo considerava un tipo piuttosto duro, molto ambizioso e capace quasi di tutto per raggiungere i suoi scopi. Si diceva che avesse anche velleità politiche.
Secondo gli inquirenti si trattava di uno dei tanti delinquenti che lui aveva fatto condannare in passato e che minacciava di vendicarsi. L’articolista aggiungeva che la polizia aveva offerto al giudice una bella scorta, per proteggerlo, ma che lui aveva sdegnosamente rifiutato. Probabilmente, pensò Ben, voleva soltanto fare un po' di scena. La prossima primavera ci sarebbero state le elezioni per il sindaco e se Stockton aveva una mezza idea di candidarsi, non gli sarebbe certo piaciuto fare la figura dell'ometto impaurito. E senza rischiare troppo, visto che quelli che scrivono le lettere minatorie sono molto spesso solo dei mitomani innocui. Per un giudice di lungo corso come Stockton non era stata sicuramente la prima volta, eppure era ancora lì, vivo e vegeto. Comunque non erano affari suoi. Ben chiuse il giornale e tornò alla scrivania per riprendere il lavoro.

* * * * *

Verso le cinque del pomeriggio, il telefono personale di John Stockton squillò nel suo ufficio del Tribunale. Era Geena Howard, la segretaria.
- Vostra moglie è in linea, giudice. - disse la ragazza. Stockton non aveva dato istruzioni particolari, quel pomeriggio, per cui poteva passargli la telefonata senza problemi.
- Ok, Geena. Passa pure.
Si sentì un "clic" e la linea fu passata.
- John, sono Janet.
- Dimmi, cara. - disse lui con voce insolitamente cortese. Ormai stava per liberarsi di quella rompiscatole una volta per tutte e non gli costava niente essere gentile con lei. Anzi, per certi versi, era persino divertente.
- Sei libero sabato sera ?
- Penso di sì. Perchè me lo chiedi ?
- Siamo stati invitati a cena dai Wells.
Betty Wells, moglie di uno dei più noti avvocati di Bristow, era una cara amica di Janet. A John Stockton, Betty non piaceva molto, ma si trattava di obblighi sociali che non poteva evitare. O almeno non tutte le volte che avrebbe voluto.
Il sabato, per John, era da sempre una giornata persa, perchè quasi tutti gli impegni mondani venivano fissati proprio quel giorno, di pomeriggio o di sera. E lui ormai ci si era adattato, fissando i suoi incontri intimi con Jessica in una delle altre sere della settimana. Quella volta, però, era ancora diverso. John attendeva con ansia un invito a cena, perchè era proprio quello di cui aveva bisogno per la conclusione del suo piano. Per cui non ebbe nessuna difficoltà a rispondere a sua moglie con un tono quasi entusiasta.
- Ma certo, cara. Vengo volentieri a cena da Betty.
Janet, che si aspettava resistenze e rimostranze varie, quasi non credeva alle proprie orecchie.
- Davvero vieni volentieri ?
- Ma certo, cara. Non ho nessun impegno per sabato sera.
- Sì, ma non è che Betty ti sia mai stata troppo simpatica...
- Non è poi così male, a pensarci bene. E' solo un po' stravagante.
- Veramente il mese scorso l'hai chiamata "vecchia strega".
- Ma sì, - disse Stockton conciliante - sono cose che si dicono. Basta farci l'abitudine.
- Se lo dici tu. - disse Janet quasi incredula. Sembrava quasi che suo marito fosse tornato a comportarsi con la gentilezza dei primi anni di matrimonio. E tutto questo, a Janet, non poteva che fare enormemente piacere. Se durava...
- Per che ora sarebbe ? - chiese il giudice.
- Per le nove.
- Benissimo. Così potrò ancora vedere il notiziario della sera sulla TBS. - concluse John - Ci basterà uscire di casa per le otto e mezzo e arriveremo in tempo.
- Ma c'è sempre tanto traffico al sabato sera, John. - replicò Janet.
Brutta stupida, pensò Stockton con irritazione. Come se non fosse sempre per colpa di sua moglie, se tante volte arrivavano in ritardo agli appuntamenti. Ma ormai aveva finito di rovinargli la vita.
- Non ti preoccupare, cara. In meno di mezz'ora possiamo essere alla villa dei Wells. Basta partire in orario.
- D'accordo.
- Ah - disse lui con "nonchalanche" - a proposito... Stasera torno a casa un po' più tardi perchè ho del lavoro da finire.
Stockton era eccitato come non mai. Adesso, che tutto si stava mettendo per il meglio, sentiva il bisogno irrefrenabile di andare dalla sua Jessica.
- Va bene. - rispose Janet comprensiva.
- Pensi di cenare a casa ?
- Vedrò quando mi libero. Se posso ti telefono.
- Dirò a Delly di tenerti in caldo qualcosa.
- Ecco sì. A stasera.
- A stasera, caro.
Stockton posò il telefono e si fregò le mani soddisfatto. Poi rialzò subito la cornetta per chiamare Jessica. La sua voce calda lo fece eccitare ancora di più. Conosceva bene quella voce, ma ogni volta gli dava sensazioni incredibili, come se fosse la prima volta.
- John, tesoro, finalmente mi chiami.
- Ho avuto un mucchio da fare.
- Quando vieni da me ?
- Stasera. Tra poco.
- Vieni presto, amore mio, Ti prego. Non sai quanto mi manchi. - disse lei con voce insinuante.
- Lo so, lo so. Ti manco quanto tu manchi a me.
Jessica soffocò un risolino.
- No. Di più.
- Mezz'ora e sono lì, Jessica. Il tempo di finire un paio di cose.
- Ti aspetto.
Stockton le mandò un lungo bacio per telefono, che Jessica ricambiò con ostentata sensualità, e chiuse la comunicazione.
Adesso restava ancora una cosa da fare. Si frugò nelle tasche, ne prese un foglietto scarabocchiato e fece un altro numero di telefono. Doveva avvertire Trevor Ruffin che l'attentato sarebbe stato per sabato sera alle otto e mezzo. Ruffin si era molto raccomandato di essere avvertito con il massimo anticipo e Stockton era ben felice di accontentarlo. Fino a quel momento era andato tutto a meraviglia: non voleva certo correre il rischio che qualcosa andasse storto per una stupida negligenza. Il killer rispose al quinto squillo.

* * * * *

Trevor Ruffin posò il telefono sul comodino e si rigirò nel letto verso Tina Marshall. La ragazza, bellissima, era distesa al suo fianco, nuda, appena coperta da un brandello di lenzuolo.
- Allora, amore mio, dove eravamo rimasti ? - disse baciandola sul collo.
- Chi era al telefono ? - chiese Tina incuriosita.
- Lascia perdere. - rispose lui brusco.
Ruffin non amava parlare del suo lavoro con le donne che frequentava. Ovviamente, dopo qualche tempo, loro capivano perfettamente che tipo di mestiere lui facesse. Ma di fronte alla sua reticenza avevano abbastanza buon senso da non insistere.
Con Tina Perry, però, era un po' diverso. Anzitutto lei era un tipo speciale. Curiosa di tutto, anche di quello che riguardava il suo amante. E poi era così bella e passionale che Ruffin ne era attratto in maniera particolare. Tanto che gli riusciva difficile mantenere il silenzio quando lei gli chiedeva qualcosa. Un punto debole, questo, per un killer, certo. Ma in fondo tutti, a questo mondo, hanno i loro punti deboli. Tina, che conosceva il suo uomo, non si arrese.
- Ti prego, amore mio, dimmelo. - miagolò accarezzandogli il petto. Trevor Ruffin ebbe un brivido di piacere.
- Sai che non mi piace parlare di queste cose... - disse cercando di mantenere un tono distaccato.
- Ma io sono curiosa.
- Ah, lo so bene.
- E allora... accontentami.
Ruffin scrollò il capo sorridendo. Ma sì, che poteva dirglielo. Tanto che problema c'era ? Da Tina non poteva sicuramente venirgli nessun pericolo. Lei non lo avrebbe riferito a nessuno, perchè era sposata e non poteva certo far sapere in giro che era l'amante di un altro uomo. E di un killer per di più.
- Allora ? - insistette la ragazza accarezzandolo di nuovo.
- Non lo indovineresti mai.
- Ho sentito che lo chiamavi giudice. E' un soprannome, vero?
- No, no. - disse lui ridacchiando - E' proprio un giudice.
- Ma dai...
- Ti giuro. E pensa che si è rivolto a me proprio per un contratto.
Tina sgranò gli occhi sorpresa.
- Un giudice che vuole che tu gli uccida qualcuno ?
- Proprio così.
- E chi deve far fuori ? Un ricattatore ?
- Niente di così complicato, semplicemente sua moglie.
- Povera donna.
- Oh, per me. Basta che mi paghi.
- E come si chiama ? - chiese Tina con aria annoiata.
- La moglie ? Janet, mi sembra.
- No, dico, come si chiama lui.
- Ah, è il giudice Stockton.
Tina alzò la testa e lo guardò incuriosita.
- Ma davvero ?



domenica 6 aprile 2014

L'attentato fallito - 4

Cap. 4 - Mercoledì mattina


Come ogni mattina, Delly Marshall, la graziosissima cameriera negra di casa Stockton, entrò nell'ampio soggiorno per consegnare alla moglie del giudice i giornali e la posta della giornata. Per tradizione ormai consolidata, la signora Janet apriva e leggeva anche le lettere indirizzate al marito. Era un'abitudine presa nei primi anni di matrimonio, quando John ci teneva a darle un'impressione di lealtà e fiducia nei suoi confronti: il classico marito che non ha segreti per la moglie. Poi l'usanza era rimasta, senza un vero motivo, anche adesso, nonostante il peggiorare dei loro rapporti.
John non se ne lamentava, perchè aveva imparato ben presto come aggirare quella piccola intrusione nella sua vita privata. Alcuni anni prima si era iscritto all'"Old England", uno dei club più esclusivi di Bristow, e si faceva mandare direttamente lì tutta la posta in qualche modo riservata. La cosa non aveva destato nessuna meraviglia, perchè si addiceva perfettamente a una persona benestante e socialmente importante come lui, e funzionava benissimo. John Stockton, sfruttando il fatto che la sede del club era molto vicina al Tribunale, faceva in modo di andare al club quasi tutti i giorni, per cui poteva leggere le sue lettere riservate senza ritardo. E magari rispondere direttamente da lì, utilizzando la carta intestata che il club metteva gentilmente a disposizione dei soci. Janet, da parte sua, non sospettava di nulla, perchè una parte della posta continuava comunque ad arrivare a casa. E anche se intuiva qualcosa, non ci poteva fare nulla.
Delly si avvicinò alla poltrona dove era seduta la signora e posò il vassoio della posta sul tavolino davanti a lei. Janet la ringraziò con un sorriso e la congedò con cortesia. Janet era quasi sempre scontrosa nei rapporti con suo marito, visto che la sua vita matrimoniale non era delle più felici, ma sapeva essere molto gentile con le altre persone che le erano amiche. Forse era un modo istintivo di cercare una compensazione affettiva, o forse era soltanto un aspetto del suo carattere. Fatto sta che Delly, pur essendo solo la domestica di casa, veniva trattata dalla padrona con una intimità quasi famigliare. Il che inorgogliva sinceramente la ragazza.
Così, sia per riconoscenza, sia per un naturale sentimento di solidarietà femminile, quando i due coniugi si mettevano a litigare per qualche motivo, il che si verificava piuttosto spesso vista la situazione di crisi perenne che si respirava in quella casa, Delly non aveva esitazioni, e finiva sempre per schierarsi dalla parte della signora. Senza contare alcune spiacevoli esperienze personali. Delly ricordava ancora molto bene quello che era successo qualche anno prima, quando il "rispettabile" giudice Stockton, aveva tentato, per ben due volte e in modo neanche troppo velato, di approfittarsi della bella cameriera appena assunta. Per fortuna senza successo.
Delly sapeva che alla signora Janet piaceva parlare con lei per commentare le lettere che le arrivavano. Perciò rimase nella stanza a spolverare i mobili, mentre la signora, dopo aver dato un'occhiata distratta ai giornali, che avrebbe letto più tardi con tutta calma, apriva la posta della giornata. Le prime due buste non contenevano niente di interessante e Janet Stockton non disse nulla. Ma quando ebbe aperto la terza, curiosamente senza mittente, ebbe un sussulto.
- Oh signore Iddio ! - balbettò.
- Che succede signora - chiese Delly, che aveva capito dal tono di voce della padrona, che c'era qualcosa di grave.
- Delly, vieni a vedere.
La ragazza si avvicinò e la padrona le tese un foglio di carta bianca con dei ritagli di giornale incollati sopra, in modo da formare una frase.
- Che strana lettera - disse Delly prendendola.
- Oh Signore... - ripetè Janet incapace di connettere.
La ragazza lesse la lettera e sbiancò anch'essa. Il testo era disposto su quattro righe e diceva: “PREPARATI A MORIRE, GIUDICE STOCKTON. ADESSO SONO IO CHE TI CONDANNO E TU MORIRAI !”
La ragazza posò il foglio sul tavolino e guardò la padrona, la quale, a sua volta, si torceva le mani senza sapere bene cosa fare. Non era più in buoni rapporti con John, ma qui si trattava di una minaccia di morte. La morte di suo marito. Non era una cosa da prendere con allegria. Janet guardò Delly, che nonostante lo stupore, era riuscita a mantenersi più calma.
- Che devo fare, Delly ?
- Credo che fareste bene a telefonare al signore.
- In tribunale ? Sai che non gli piace essere disturbato.
- Ma questa è una cosa grave.
- Sì, è una cosa grave – ripetè Janet come inebetita.
- Sono certa che non si arrabbierà. E' una cosa importante, deve sapere quello che è successo.
- Sì, Delly, hai ragione.
Si alzò, si diresse verso il telefono e fece il numero diretto della segretaria personale di suo marito. Geena Howard rispose al secondo squillo.
- Tribunale di Bristow, ufficio del Giudice Stockton. Desidera?
- Sono la signora Stockton, Geena, devo parlare con mio marito.
- Non so se posso... - disse titubante la ragazza. Aveva avuto istruzioni ben precise, da parte del giudice, di non essere disturbato per nessun motivo e non aveva nessuna voglia di prendersi una sgridata per avergli disubbidito.
- E' in udienza, per caso ? - La voce di Janet era agitatissima e la segretaria se ne accorse. Capiva che doveva essere successo qualcosa di grave e non se la sentì di mentire.
- In questo momento no, però...
- Allora passatemelo subito. Vi prego.
- Provo a vedere.
- Fate presto, mi raccomando, Geena. E' successa una cosa gravissima.
Le ultime parole della moglie ebbero il potere di far cadere le ultime resistenze nella ragazza. Geena Howard premette il pulsante che escludeva la comunicazione esterna e chiamò il numero interno della stanza del giudice.
- Sì ? - disse Stockton sgarbato. Stava esaminando una causa piuttosto difficile e non tollerava di essere disturbato.
- C'è vostra moglie, giudice... - disse la ragazza esitante.
- E allora ? Lo sai che non voglio essere disturbato.
- Sì, lo so. Ma mi ha detto che è una cosa grave.
Stockton ebbe un attimo di esitazione poi si rese conto di quello che era successo. Janet doveva aver ricevuto la lettera minatoria che lui stesso aveva provveduto a compilare e spedire, e adesso era agitatissima. Ottimo. Tutto stava andando a meraviglia.
- Va bene, va bene, Geena... - disse alla ragazza, sempre con tono burbero, tanto per rispettare la parte – passamela pure.
- D'accordo.
- Ma non voglio altre interruzioni, dopo.
- No certo, giudice.
Geena Howard premette un paio di pulsanti e gli passò la comunicazione.

* * * * *

Dopo essersi divertito un po' con sua moglie, cercando il più possibile di terrorizzarla senza darne l'impressione, Stockton alzò di nuovo il telefono e chiamò il capo della polizia di Bristow, Vernon Fleming. Aveva bisogno di coinvolgerlo direttamente per la migliore riuscita del suo piano. E d'altra parte voleva comportarsi in modo logico anche agli occhi di Delly, che dopo la morte della moglie sarebbe stata una testimone preziosissima a suo favore, per cui non poteva evitare di segnalare il fatto alla polizia.
Il problema era piuttosto un altro. Fleming era un tipo molto scrupoloso e lo conosceva da anni, per cui avrebbe sicuramente insistito per affidargli una scorta. Mentre lui, ovviamente, con quello che aveva in mente, non aveva nessuna voglia di avere degli agenti tra i piedi. Stockton, però, era fiducioso di poter rintuzzare i tentativi di Fleming senza troppa difficoltà. Anzitutto la Polizia era sempre a corto di uomini, e distaccarne un paio alla sua protezione voleva dire sguarnire altri settori. Il Capitano Fleming, questo, lo sapeva bene. E se da un lato non poteva non offrire la sua protezione a un giudice, dall'altra l'avrebbe fatto senza troppo entusiasmo. Così, se la "vittima" avesse cortesemente rifiutato di ricevere la scorta, Fleming non avrebbe avuto nessun motivo per insistere più di tanto. Perciò a Stockton bastava fare leva sui legittimi desideri dell'altro per riuscire nel suo intento.
Ma questo non era l'unico argomento a suo favore. C'era anche il fatto che quella che aveva ricevuto, in fondo, non era che una semplice lettera minatoria. Stockton, in passato, ne aveva già ricevute altre, anche se un po' più blande, e non era mai successo niente. Si fosse trattato di una serie di lettere, tutte provenienti dalla stessa fonte, forse Fleming avrebbe pensato a qualcosa di veramente serio e avrebbe insistito, ma per il momento era prematuro. E Stockton, d'altra parte, non aveva nessuna intenzione di complicarsi la vita inviandosi altre missive. Per quello che stava architettando, una sola lettera era più che sufficente. In sostanza aveva tutti i motivi per stare tranquillo.
Il centralinista della Polizia fu piuttosto efficiente e in pochi secondi Stockton ebbe in linea il Capitano Fleming. Il giudice lo salutò cordialmente e gli spiegò con voce tranquilla quello che era successo. Cercò di mostrarsi tutt'altro che preoccupato, e riuscì perfettamente nel suo intento. Fleming, come previsto, gli offrì un paio di agenti per un certo periodo, ma Stockton respinse sdegnato l'ipotesi di una scorta. E il capitano Fleming, anche se a parole insisteva, era in realtà ben felice di accontentarlo. Così si limitò a raccomandare al giudice di essere prudente e di informarlo subito nel caso avesse ricevuto un'altra lettera, o avesse visto qualcosa di sospetto. Stockton glielo promise solennemente e il colloquio finì lì.
Fleming terminò la telefonata e non ci pensò più. Rimosse rapidamente dalla sua mente il problema di Stockton e si rituffò senza esitare nel lavoro che aveva per le mani. Aveva ben altro per la testa il Capo della Polizia di una città come Bristow che non fare la balia a un giudice, anche se importante, solo per una banale lettera anonima !
Stockton, invece, posò l'apparecchio con un sorriso e si appoggiò soddisfatto allo schienale della poltroncina. Prese un bicchiere e si concesse una dose generosa del suo cognac preferito. Tutto stava andando esattamente come previsto e, pensò con legittimo orgoglio, non poteva essere che così. Lui era un tipo troppo in gamba, per tralasciare anche il più piccolo dettaglio. E chi ha l'intelligenza e la pazienza di curare con attenzione anche i minimi dettagli, si disse, non può fallire.