Cap. 6 - Sabato
Il campanello trillò
imperioso, rompendo il silenzio della stanza. Ben Wallace si
alzò dalla scrivania e andò ad aprire la porta. Era Elliot Perry,
puntuale come promesso. Fuori pioveva, con notevole intensità,
sin dal primo mattino e l'aria era fredda. L'uomo entrò,
strinse la mano a Ben e si tolse l'impermeabile fradicio d'acqua.
- Piove bene, eh ? -
disse Ben tanto per dire qualcosa.
- Accidenti, se piove.
Perry cercava di
mostrarsi tranquillo, ma probabilmente aveva percepito come
stavano le cose, perchè aveva lo sguardo spento e triste. Sembrava
persino meno robusto, nonostante il fisico rispettabile. Era come
se un peso invisibile incombesse su di lui e lo costringesse
a tenere un'andatura un po' strascicata, stanca, con le spalle
incurvate. Ben cercò l'ombrello con lo sguardo per farglielo
posare nel portaombrelli, ma non lo vide.
- L'ombrello ?
Perry fece un gesto
vago con la mano.
- L'ho dimenticato a
casa.
- Come siete venuto,
fino qui ?
- Con il tram, no ?
Niente taxi,
nonostante la giornataccia. Doveva essere di quei tipi che
cercano invano di risparmiare i soldi che le mogli buttano
allegramente dalla finestra. Col suo lavoro, poi, non doveva
certo guadagnare molto. Ben aiutò il suo cliente ad
appendere l'impermeabile all'attaccapanni, tenendolo il più
possibile disteso perchè si asciugasse un po'. Poi si diresse
nello studio, facendogli segno di seguirlo. Perry lo seguì mogio.
Quando furono entrambi seduti, Ben aprì un cassetto della
scrivania e ne estrasse il fascicolo che aveva preparato.
- Allora, signor Wallace
? - chiese Perry torcendosi nervosamente le mani.
- Mi dispiace, signor
Perry, ma credo proprio che vostra moglie vi tradisca.
L'uomo scrollò il
capo sconsolato.
- Me lo sentivo, sapete
? E dire che io l'amo con tutto il cuore.
Ben allargò le
braccia.
- Forse il vostro amore
è mal riposto.
- Temo che abbiate
ragione. - disse con un sussurro.
Perry si portò le
mani alla faccia e rimase così per qualche istante. La pelle,
di un marrone molto scuro, era imperlata di sudore.
- E’ stato difficile
scoprirlo ?
- No, non molto.
Cercano di non farsi notare, ma niente di troppo complicato.
- Avete delle foto ?
- Sì. Qualcuna ritrae
vostra moglie mentre entra nel portone della casa di lui. Un altro
paio li ritrae addirittura insieme.
- E lui chi sarebbe ?
- Il nome non lo so.
Ma so che lo chiamano "Iceman" e il nome è tutto un
programma.
- Non capisco. Perchè ?
Che lavoro fa ?
- Pare che sia nel giro
della malavita di Bristow.
Elliot Perry sgranò
gli occhi. Tutto si sarebbe aspettato meno che una cosa simile.
- Un gangster...
- Più o meno.
- Oh, mio Dio !
- Non so che ruolo
abbia, esattamente, nell'ambiente, ma non è certo l'ultimo dei
"tirapiedi". E deve guadagnare un mucchio di soldi. Se
davvero vostra moglie è un tipo molto sensibile al denaro, non c'è
dubbio che con lui possa permettersi tutto quello che vuole.
- E'... un nero anche
lui ?
- No. E' un bianco.
Perry scosse di nuovo
il capo. Com'era possibile che sua moglie andasse dietro a un
tipo così diverso da lui ? No, non era questo il punto. La domanda
da farsi era un'altra: com'era possibile che lui si fosse
innamorato perdutamente di una donna così diversa, così lontana
dal suo modo di pensare ? Lui non era ricco, certo, ma era una
persona onesta, orgoglioso di esserlo. Gli sarebbe piaciuto avere
più denaro, ma non a prezzo di certi compromessi. Il suo
stipendio era modesto, ma ogni dollaro era guadagnato onestamente,
con la forza delle sue braccia e il sudore della sua fronte.
E Tina, invece, che
donna era ? Una donna che accettava un killer come amante, solo
per poter avere tutti i soldi che voleva. E bianco, per giunta. Ma
Tina era così bella che poteva anche permetterselo. Ben capì la
tempesta di pensieri che si agitava nella mente del suo cliente e non
disse nulla, rispettando il suo silenzio.
Poi Perry rialzò il
capo, come se avesse preso una decisione. Non c'era allegria nel
suo sguardo, ma se non altro aveva perso la sua tristezza
infinita. Gli occhi si animarono di nuova vita. Si capiva che
aveva preso una decisione sofferta, ma che lo liberava
finalmente da un peso insostenibile. Una decisione che lo
avrebbe rimesso in pace con se stesso. Guardò Ben fisso negli occhi.
- Quanto vi devo, per la
vostra indagine ?
- Non volete vedere
prima la mia relazione ? - disse Ben stupito, indicando il
fascicolo davanti a lui.
- No. Non mi interessa.
- Nemmeno le foto ?
- Nemmeno le foto. A
che pro ?
Ben capì la scelta
dell'uomo e non insistette.
- So quanto basta -
continuò Perry - e ho deciso di non soffrire più. Non voglio
neanche vedere che faccia ha quel tizio. Non voglio più sapere
niente.
- Vi capisco. Comunque
vi prego di prenderla ugualmente. - disse Ben, indicando la sua
relazione – Io, il mio lavoro l'ho fatto. E’ giusto che ve lo
dia.
- Se volete... - disse
Perry stringendosi nelle spalle. Prese il fascicolo, lo ripiegò in
metà per il lato lungo e se lo infilò nella tasca della
giacca. Poi mise una mano nella tasca interna e ne tirò fuori
il libretto degli assegni.
- La mia vita con Tina
è finita. - concluse a bassa voce - Può andare dove vuole. Fare
quello che vuole. Ma fuori da casa mia.
Compilò l'assegno e
lo consegnò a Ben.
- Finalmente ho finito
di soffrire.
* * * * *
John Stockton alzò il
bicchiere davanti a sè e lo fece tintinnare contro quello di Lionel
Simmons.
- Alla mia candidatura.
- All'elezione a
sindaco. - fece eco Simmons.
Mancava un quarto
d'ora all'una e i due amici, comodamente seduti nella sala-bar
dell'Old England Club, stavano bevendo il loro aperitivo, in attesa
di spostarsi nella sala da pranzo.
- Sai, John, il "capo"
ha saputo della faccenda della lettera anonima e del fatto che hai
rifiutato la scorta.
- Lo immaginavo. E che
cosa ha detto ?
- Ha detto che hai
fatto un'ottima figura. Da uomo deciso, che non ha paura di
nessuno.
E non sapete ancora
tutto, pensò Stockton sorridendo tra sè. Non sapete ancora quello
che sto preparando davvero. Altro che uomo deciso, che non ha
paura di una lettera anonima. Dopo l'attentato, tutti
parleranno di me come un vero eroe. E la candidatura sarà mia.
- Era quello che mi
aspettavo. - disse Stockton con un sorriso. Lionel Simmons fissò un
attimo l'amico, poi sgranò gli occhi.
- Hai rifiutato la
scorta per questo ? Per far colpo su Rex Chapman ?
- Anche. Perchè no ? Tu
non avresti fatto altrettanto ?
- Io ? - disse Simmons
posandosi una mano sul petto con gesto teatrale. - Io avrei avuto una
fifa blu, ecco la verità.
Stockton si strinse
nelle spalle cercando di darsi un tono.
- Tu non sei in
predicato per diventare sindaco. Io devo mettermi in mostra. E
ogni occasione è buona per riuscirci. Lo sai quanto ci tengo,
no ?
- Certo che lo so. Ma
quella della lettera era una minaccia di morte, John. Non hai un
po' di paura che quel tizio metta in atto le sue minacce ?
- Senti, Lionel, non è
la prima volta che ricevo una lettera anonima, sai.
- Davvero ? Non lo
sapevo.
- E' successo alcuni
anni fa, ma la cosa non era stata riportata dai giornali.
- E... come è finita.
- Come vuoi che sia
finita ? In niente. Non mi è mai successo niente. Sono solo
dei mitomani da strapazzo. Mandano la loro brava letterina di
minacce, si sentono orgogliosi della propria intraprendenza, e
tutto finisce lì. Non hanno mai il coraggio di passare dalle
parole ai fatti.
- Meglio così.
- Certo, che è meglio
così - Stockton si chinò verso l'amico e gli strizzò l'occhio -
Ma... questo non vuol dire, ovviamente, che non si possa "montare"
un po' la storia, se fa comodo. Ti pare ?
- Sei proprio una volpe
tu, John.
- Questa è la "mia"
occasione, Lionel. Devo approfittare di tutte le circostanze che mi
si presentano. E se qualcuno è così sciocco da mandarmi una
lettera minatoria proprio in questo periodo, tanto vale che ne
approfitti, no ?
- Più che giusto, John.
Simmons subiva da
sempre il fascino di una personalità forte come quella di John
Stockton e si lasciava convincere abbastanza facilmente dalle sue
argomentazioni. D'altra parte, a livello politico, erano una
coppia affiatata proprio perchè i ruoli, tra loro due, erano
perfettamente segnati. Stockton era il leader. Quello che
avrebbe occupato la carica più importante. E Simmons era l'amico
fidato che lo aiutava ad emergere, ottenendo poi, lontano dai
riflettori, tutte le soddisfazioni che si aspettava di ricevere.
- Comunque il capo era
proprio soddisfatto. - continuò Simmons - E' molto ben disposto
nei tuoi confronti. E forse la candidatura sarà davvero tua.
- Quando pensi che possa
decidere ?
Simmons posò il
bicchiere e si grattò la testa pensieroso.
- Beh, sai che a metà
dicembre c'è la riunione del comitato direttivo, a Nelson.
- Sì, lo so. Ma da
che lo conosco io, il "capo" non ha mai aspettato le
riunioni del comitato direttivo, per decidere.
- Ma è il comitato,
che sceglie le candidature, John. - obbiettò Simmons.
- Sì, certo, come no.
Sulla carta. Ma lo sai anche tu che, di fatto, è sempre Rex che
decide. Lui sceglie il candidato e quando si riunisce il comitato
c'è già il suo bravo nominativo pronto. E nessuno è così
pazzo da mettersi contro il "capo", al momento delle
votazioni.
- Sì. Anche questo è
vero.
Simmons andò col
pensiero alle ultime votazioni alle quali aveva preso parte e
dovette convenire che quello che diceva l'amico era proprio
vero. Rex Chapman era molto bravo a rispettare la forma. Ma era
ancora più bravo a manovrare il comitato, in modo che votasse sempre
come voleva lui. E non sbagliava un colpo. Non per niente era il
capo indiscusso del loro partito, in quello Stato, ormai da molti
anni, e nessuno aveva mai neppure pensato di insidiare la sua
posizione.
- Perciò stagli dietro
al "capo". - concluse Stockton - E cerca di convincerlo.
- Puoi giurarci, che
lo farò.
- Perchè questa volta,
caro Lionel, il candidato devo essere io. A qualunque costo.
* * * * *
Trevor Ruffin era un
tipo efficiente e metodico. D'altra parte non si poteva fare quel
mestiere per anni, e con successo, senza possedere quelle
caratteristiche. Aveva appena finito di controllare per la
terza volta la funzionalità del fucile di precisione che si era
procurato e tutto era perfettamente a posto. Il fucile non era suo,
perchè non gli piaceva tenere certe cose "compromettenti"
in casa propria. E con ragione.
Ruffin era già stato
arrestato e processato più di una volta. Ma aveva sempre finito
per uscirne pulito, proprio perchè la polizia non era mai
riuscita a trovare niente che potesse davvero incastrarlo.
Nessuna arma, nessuna impronta, nessuna prova. Tutto merito della
sua prudenza e della sua organizzazione. Il fatto era, molto
semplicemente, che Ruffin aveva un mucchio di amicizie e di
conoscenze. Perciò non aveva nessuna difficoltà a lasciare le
varie armi, o qualsiasi altro oggetto che gli fosse utile per il
suo lavoro, direttamente in casa di qualcun'altro. Salvo poi
riprenderselo indietro quando ne aveva bisogno e per lo stretto
tempo che gli era necessario. Come ora con il fucile di
precisione, per esempio.
Ruffin guardò
l'orologio: le otto meno qualche minuto. Ora di muoversi. Con
gesti rapidi e sicuri il killer rimontò i quattro pezzi nei
quali aveva scomposto l'arma e infilò il fucile completo dentro
una custodia da strumento musicale che usava spesso in casi del
genere. Un po' banale come copertura, ma per i brevi tragitti era
ancora il metodo migliore. L'aveva già utilizzato, in
passato, e aveva sempre funzionato a meraviglia.
Si infilò il giaccone
di pelo, adatto al freddo che era calato sulla città, e uscì
dal suo appartamento. Fuori piovigginava appena e non si diede la
pena di prendere l'ombrello. Attraversò la strada e si diresse
verso l'automobile, parcheggiata dalla parte opposta. L'aveva appena
rubata, un paio di ore prima, nel parcheggio di un grande
magazzino lì vicino. Era stato un gioco da ragazzi, per uno come
lui. Era una piccola auto giapponese, come se ne vedevano tante,
ormai, per le strade d'america. Il colore era blu scuro,
l'ideale per non essere notato di sera.
Salì sull'auto, mise
in moto e si avviò a velocità moderata verso il centro della
città. Aveva calcolato che da casa sua al luogo dell'appuntamento
non ci volessero più di dieci minuti, ma a Ruffin piaceva arrivare
in anticipo. Non troppo, ovviamente, per evitare che qualcuno lo
notasse mentre era fermo nell'abitacolo davanti alla sede della
banca.
* * * * *
Il giudice Stockton
era già vestito e attendeva nervosamente, camminando nell'ampio
salone del loro appartamento. Il notiziario della TBS era finito e
non aveva altro da fare se non aspettare che Janet fosse pronta.
Il nervosismo ovviamente era dovuto a quello che sarebbe
successo di lì a poco, ma sua moglie lo avrebbe sicuramente
attribuito al suo ritardo nel vestirsi, per cui non si dava pensiero
di nasconderlo.
Janet Stockton era
ancora nella sua stanza da letto insieme con Delly, la cameriera,
che la aiutava a sistemare le ultime cose. Janet teneva molto alle
serate mondane e faceva sempre in modo di essere al massimo della
sua eleganza. Non un filo doveva essere fuori posto e non poche
volte aveva deciso di cambiarsi totalmente d'abito, proprio
all'ultimo momento, solo perchè non era soddisfatta di un
certo accostamento di colori.
John, come tanti altri
mariti, cercava di ignorare quelle scene e se si arrabbiava
cercava di tenere la cosa dentro di sè. Aveva imparato che,
tutto sommato, arrivare in ritardo era ancora preferibile a
rovinarsi il fegato senza costrutto. Quella sera, però, il
programma era ben diverso dal solito e, se il diavolo non ci metteva
la coda, sarebbe stata davvero l'ultima scena di quel genere.
Guardò l'ora: le
8,28.
Si stava facendo
tardi, anche perchè al sabato sera il traffico faceva presto a
diventare caotico. Con la pioggia ed il freddo, poi, c'era molta
più gente che finiva per prendere l'auto. Fosse stata una serata
normale, il giudice Stockton avrebbe sicuramente incominciato ad
imprecare tra sè. Ma quella non era una serata normale.
Andò col pensiero
all'effetto che avrebbe avuto sull'opinione pubblica il falso
attentato contro la sua persona e il suo nervosismo quasi cessò
del tutto. Un piano davvero perfetto il suo. In un colpo solo si
sarebbe liberato di quella rompiscatole della moglie e avrebbe
posto le basi per una luminosa e, ne era certo, inarrestabile
carriera politica.
* * * * *
Trevor Ruffin era
seduto tranquillamente sul sedile della sua auto e aspettava. Era
arrivato verso le otto e un quarto e aveva trovato facilmente da
parcheggiare, proprio davanti alla sede della First National Bank.
Di fronte, al di là dell'ampio viale alberato, c'era il numero
89 di Lincoln Street, da cui sarebbero usciti John Stockton e sua
moglie.
Il fucile era posato
sul sedile a fianco, coperto da un plaid, pronto per essere
usato. Ormai era quasi mezz'ora che aspettava, ma Ruffin non
aveva fretta, nè dimostrava impazienza. Aspettare faceva parte
del suo mestiere e lui sapeva farlo senza innervosirsi.
Guardò ancora
l'orologio sul cruscotto: le 8,41. Aveva concordato di
aspettare fino alle nove, dopodichè, se non vedeva nessuno,
voleva dire che qualcosa era andato storto e se ne sarebbe
andato. Niente di grave, comunque. Era già successo altre volte,
nel suo lavoro, di dover rimandare, ma non per questo aveva
rinunciato ai suoi incarichi. Ruffin non aveva "mai"
mancato di portare a termine un "contratto" e
ne era particolarmente orgoglioso. Avrebbe semplicemente
riprovato un'altra volta.
* * * * *
- Caro... eccomi, sono
pronta - disse infine Janet Stockton uscendo dalla stanza.
Era veramente molto
elegante, in un abito lungo, moderatamente scollato, di un
delicato color verde salvia, coperto sulle spalle da uno scialle
bianco. Ma il marito non era certo nelle condizioni migliori
per poterlo apprezzare.
- Era ora, accidenti. -
borbottò.
Delly, in piedi
dietro alla sua padrona, la stava aiutando ad indossare la
pelliccia di visone.
- Non fare quella
faccia, John. Non è mica tardi, no ?
- Figuriamoci ! Andiamo,
va.
John Stockton uscì
dalla porta e si incamminò con passo veloce per le scale.
Abitavano solo al secondo piano e quando dovevano scendere non
usavano quasi mai l'ascensore. John Stockton aveva tenuto conto
di questo fatto, nell'elaborare il suo piano, perchè era
necessario che lui scendesse le scale e uscisse fuori sul
marciapiede prima di lei.
Arrivò al portone del
palazzo e lo aprì, mentre sentiva il rumore dei tacchi della
moglie, che scendeva le scale dietro di lui. Guardò fugacemente
l'ora, mentre prendeva una sigaretta e la infilava tra le
labbra: le 8,46.
Guardò dall'altra
parte della strada ma era buio e non vide nulla di particolare.
D'altra parte la strada era ampia e lui non sapeva che tipo di auto
avesse il killer. Era certo però che Trevor Ruffin fosse al suo
posto. Era un professionista in gamba, lui. E non aveva motivo di
dubitare della sua efficienza.
Janet era arrivata in
fondo agli scalini e stava attraversando l'atrio. Era il
momento.
John prese l'accendino
dalla tasca e fece per accenderlo, ma senza riuscirci. Con tutti i
sensi all'erta, sentì i passi della moglie che arrivava... Che
apriva il portone... Che usciva sul marciapiede... Adesso era
proprio dietro di lui.
Ora !
L'androne alle loro
spalle era vividamente illuminato e le due figure costituivano
un bersaglio perfetto per il killer. Non avrebbe potuto sbagliare.
Con un gesto apparentemente maldestro, il giudice Stockton si fece
scappare di mano l'accendino e si chino rapidamente per
raccoglierlo. Restò chinato per un attimo, aspettandosi di sentire
lo sparo. Ma non sentì nulla.
Rimase ancora per
qualche istante in quella posizione, fingendo di non riuscire ad
afferrarlo, ma la detonazione non venne.
Maledizione, si chiese,
cosa diavolo era andato storto?
Arrabbiatissimo
afferrò finalmente l'accendino e si alzò lentamente,
guardando fissamente davanti a sè, in direzione della Banca
dove doveva esserci Trevor Ruffin. Era frastornato e cercava invano
di dominare la sua irritazione. Ma non ebbe il tempo di fare
altro.
Un colpo secco esplose
proprio nel momento in cui John Stockton si alzava e un fiotto di
sangue uscì prepotente dal suo petto. Si portò le mani nel punto
in cui era stato colpito e rantolò per il dolore, mentre
un'espressione di incredulità si dipingeva sul suo volto.
Cosa, cosa diavolo era
successo ?
Poi la sua mente si
chiuse e i suoi pensieri svanirono per sempre. La morte lo raggiunse
in pochi attimi e Stockton si accasciò lentamente sul marciapiede,
come una marionetta alla quale hanno tagliato i fili. Janet, in piedi
di fianco a lui, lo vide cadere e proruppe in un urlo isterico.
Erano le 8 e 48.
* * * * *
Trevor Ruffin buttò il
fucile dentro la custodia, posata sul sedile posteriore, e la
richiuse. Poi con gesti rapidi mise in moto l'auto e si allontanò a
velocità sostenuta, ma non eccessiva. Aveva bisogno di togliersi
di torno il più presto possibile, ma non voleva certo
prendersi una multa per eccesso di velocità.
A circa 500 metri
dal luogo dell'attentato si trovò ad attraversare un
incrocio male illuminato, per colpa di un paio di lampioni
rotti. Per questo, nonostante il semaforo fosse verde, decise
istintivamente di ridurre la velocità, guardando alla sua
destra, per vedere se stava sopraggiungendo qualcuno. Non
c'era nessuno. Fece per accelerare nuovamente, ma ormai si trovava
al centro dell'incrocio con il semaforo già sul giallo.
Improvvisamente alla
sua sinistra arrivò a velocità sostenuta un grosso furgone.
L'autista del camioncino vide la piccola utilitaria blu scuro
solo all'ultimo momento e tentò di frenare quando ormai era troppo
tardi. Ruffin sentì lo stridore dei freni e si voltò da quella
parte, ma ormai non poteva fare più nulla.
L'impatto fu
terrificante.
L'auto di Ruffin venne
colpita violentemente sul fianco sinistro, proprio all'altezza del
sedile del guidatore e finì contro uno dei lampioni spenti
sul lato opposto della strada, accartocciandosi letteralmente
intorno ad esso. Trevor Ruffin morì sul colpo, con la colonna
vertebrale spezzata, quasi senza essersi reso conto di quello che era
accaduto.
Anche l'orologio del
cruscotto si ruppe, fermandosi sull'ora della sua morte: le 9,04.
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