lunedì 21 aprile 2014

L'attentato fallito - 6

Cap. 6 - Sabato


Il campanello trillò imperioso, rompendo il silenzio della stanza. Ben Wallace si alzò dalla scrivania e andò ad aprire la porta. Era Elliot Perry, puntuale come promesso. Fuori pioveva, con notevole intensità, sin dal primo mattino e l'aria era fredda. L'uomo entrò, strinse la mano a Ben e si tolse l'impermeabile fradicio d'acqua.
- Piove bene, eh ? - disse Ben tanto per dire qualcosa.
- Accidenti, se piove.
Perry cercava di mostrarsi tranquillo, ma probabilmente aveva percepito come stavano le cose, perchè aveva lo sguardo spento e triste. Sembrava persino meno robusto, nonostante il fisico rispettabile. Era come se un peso invisibile incombesse su di lui e lo costringesse a tenere un'andatura un po' strascicata, stanca, con le spalle incurvate. Ben cercò l'ombrello con lo sguardo per farglielo posare nel portaombrelli, ma non lo vide.
- L'ombrello ?
Perry fece un gesto vago con la mano.
- L'ho dimenticato a casa.
- Come siete venuto, fino qui ?
- Con il tram, no ?
Niente taxi, nonostante la giornataccia. Doveva essere di quei tipi che cercano invano di risparmiare i soldi che le mogli buttano allegramente dalla finestra. Col suo lavoro, poi, non doveva certo guadagnare molto. Ben aiutò il suo cliente ad appendere l'impermeabile all'attaccapanni, tenendolo il più possibile disteso perchè si asciugasse un po'. Poi si diresse nello studio, facendogli segno di seguirlo. Perry lo seguì mogio. Quando furono entrambi seduti, Ben aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse il fascicolo che aveva preparato.
- Allora, signor Wallace ? - chiese Perry torcendosi nervosamente le mani.
- Mi dispiace, signor Perry, ma credo proprio che vostra moglie vi tradisca.
L'uomo scrollò il capo sconsolato.
- Me lo sentivo, sapete ? E dire che io l'amo con tutto il cuore.
Ben allargò le braccia.
- Forse il vostro amore è mal riposto.
- Temo che abbiate ragione. - disse con un sussurro.
Perry si portò le mani alla faccia e rimase così per qualche istante. La pelle, di un marrone molto scuro, era imperlata di sudore.
- E’ stato difficile scoprirlo ?
- No, non molto. Cercano di non farsi notare, ma niente di troppo complicato.
- Avete delle foto ?
- Sì. Qualcuna ritrae vostra moglie mentre entra nel portone della casa di lui. Un altro paio li ritrae addirittura insieme.
- E lui chi sarebbe ?
- Il nome non lo so. Ma so che lo chiamano "Iceman" e il nome è tutto un programma.
- Non capisco. Perchè ? Che lavoro fa ?
- Pare che sia nel giro della malavita di Bristow.
Elliot Perry sgranò gli occhi. Tutto si sarebbe aspettato meno che una cosa simile.
- Un gangster...
- Più o meno.
- Oh, mio Dio !
- Non so che ruolo abbia, esattamente, nell'ambiente, ma non è certo l'ultimo dei "tirapiedi". E deve guadagnare un mucchio di soldi. Se davvero vostra moglie è un tipo molto sensibile al denaro, non c'è dubbio che con lui possa permettersi tutto quello che vuole.
- E'... un nero anche lui ?
- No. E' un bianco.
Perry scosse di nuovo il capo. Com'era possibile che sua moglie andasse dietro a un tipo così diverso da lui ? No, non era questo il punto. La domanda da farsi era un'altra: com'era possibile che lui si fosse innamorato perdutamente di una donna così diversa, così lontana dal suo modo di pensare ? Lui non era ricco, certo, ma era una persona onesta, orgoglioso di esserlo. Gli sarebbe piaciuto avere più denaro, ma non a prezzo di certi compromessi. Il suo stipendio era modesto, ma ogni dollaro era guadagnato onestamente, con la forza delle sue braccia e il sudore della sua fronte.
E Tina, invece, che donna era ? Una donna che accettava un killer come amante, solo per poter avere tutti i soldi che voleva. E bianco, per giunta. Ma Tina era così bella che poteva anche permetterselo. Ben capì la tempesta di pensieri che si agitava nella mente del suo cliente e non disse nulla, rispettando il suo silenzio.
Poi Perry rialzò il capo, come se avesse preso una decisione. Non c'era allegria nel suo sguardo, ma se non altro aveva perso la sua tristezza infinita. Gli occhi si animarono di nuova vita. Si capiva che aveva preso una decisione sofferta, ma che lo liberava finalmente da un peso insostenibile. Una decisione che lo avrebbe rimesso in pace con se stesso. Guardò Ben fisso negli occhi.
- Quanto vi devo, per la vostra indagine ?
- Non volete vedere prima la mia relazione ? - disse Ben stupito, indicando il fascicolo davanti a lui.
- No. Non mi interessa.
- Nemmeno le foto ?
- Nemmeno le foto. A che pro ?
Ben capì la scelta dell'uomo e non insistette.
- So quanto basta - continuò Perry - e ho deciso di non soffrire più. Non voglio neanche vedere che faccia ha quel tizio. Non voglio più sapere niente.
- Vi capisco. Comunque vi prego di prenderla ugualmente. - disse Ben, indicando la sua relazione – Io, il mio lavoro l'ho fatto. E’ giusto che ve lo dia.
- Se volete... - disse Perry stringendosi nelle spalle. Prese il fascicolo, lo ripiegò in metà per il lato lungo e se lo infilò nella tasca della giacca. Poi mise una mano nella tasca interna e ne tirò fuori il libretto degli assegni.
- La mia vita con Tina è finita. - concluse a bassa voce - Può andare dove vuole. Fare quello che vuole. Ma fuori da casa mia.
Compilò l'assegno e lo consegnò a Ben.
- Finalmente ho finito di soffrire.

* * * * *

John Stockton alzò il bicchiere davanti a sè e lo fece tintinnare contro quello di Lionel Simmons.
- Alla mia candidatura.
- All'elezione a sindaco. - fece eco Simmons.
Mancava un quarto d'ora all'una e i due amici, comodamente seduti nella sala-bar dell'Old England Club, stavano bevendo il loro aperitivo, in attesa di spostarsi nella sala da pranzo.
- Sai, John, il "capo" ha saputo della faccenda della lettera anonima e del fatto che hai rifiutato la scorta.
- Lo immaginavo. E che cosa ha detto ?
- Ha detto che hai fatto un'ottima figura. Da uomo deciso, che non ha paura di nessuno.
E non sapete ancora tutto, pensò Stockton sorridendo tra sè. Non sapete ancora quello che sto preparando davvero. Altro che uomo deciso, che non ha paura di una lettera anonima. Dopo l'attentato, tutti parleranno di me come un vero eroe. E la candidatura sarà mia.
- Era quello che mi aspettavo. - disse Stockton con un sorriso. Lionel Simmons fissò un attimo l'amico, poi sgranò gli occhi.
- Hai rifiutato la scorta per questo ? Per far colpo su Rex Chapman ?
- Anche. Perchè no ? Tu non avresti fatto altrettanto ?
- Io ? - disse Simmons posandosi una mano sul petto con gesto teatrale. - Io avrei avuto una fifa blu, ecco la verità.
Stockton si strinse nelle spalle cercando di darsi un tono.
- Tu non sei in predicato per diventare sindaco. Io devo mettermi in mostra. E ogni occasione è buona per riuscirci. Lo sai quanto ci tengo, no ?
- Certo che lo so. Ma quella della lettera era una minaccia di morte, John. Non hai un po' di paura che quel tizio metta in atto le sue minacce ?
- Senti, Lionel, non è la prima volta che ricevo una lettera anonima, sai.
- Davvero ? Non lo sapevo.
- E' successo alcuni anni fa, ma la cosa non era stata riportata dai giornali.
- E... come è finita.
- Come vuoi che sia finita ? In niente. Non mi è mai successo niente. Sono solo dei mitomani da strapazzo. Mandano la loro brava letterina di minacce, si sentono orgogliosi della propria intraprendenza, e tutto finisce lì. Non hanno mai il coraggio di passare dalle parole ai fatti.
- Meglio così.
- Certo, che è meglio così - Stockton si chinò verso l'amico e gli strizzò l'occhio - Ma... questo non vuol dire, ovviamente, che non si possa "montare" un po' la storia, se fa comodo. Ti pare ?
- Sei proprio una volpe tu, John.
- Questa è la "mia" occasione, Lionel. Devo approfittare di tutte le circostanze che mi si presentano. E se qualcuno è così sciocco da mandarmi una lettera minatoria proprio in questo periodo, tanto vale che ne approfitti, no ?
- Più che giusto, John.
Simmons subiva da sempre il fascino di una personalità forte come quella di John Stockton e si lasciava convincere abbastanza facilmente dalle sue argomentazioni. D'altra parte, a livello politico, erano una coppia affiatata proprio perchè i ruoli, tra loro due, erano perfettamente segnati. Stockton era il leader. Quello che avrebbe occupato la carica più importante. E Simmons era l'amico fidato che lo aiutava ad emergere, ottenendo poi, lontano dai riflettori, tutte le soddisfazioni che si aspettava di ricevere.
- Comunque il capo era proprio soddisfatto. - continuò Simmons - E' molto ben disposto nei tuoi confronti. E forse la candidatura sarà davvero tua.
- Quando pensi che possa decidere ?
Simmons posò il bicchiere e si grattò la testa pensieroso.
- Beh, sai che a metà dicembre c'è la riunione del comitato direttivo, a Nelson.
- Sì, lo so. Ma da che lo conosco io, il "capo" non ha mai aspettato le riunioni del comitato direttivo, per decidere.
- Ma è il comitato, che sceglie le candidature, John. - obbiettò Simmons.
- Sì, certo, come no. Sulla carta. Ma lo sai anche tu che, di fatto, è sempre Rex che decide. Lui sceglie il candidato e quando si riunisce il comitato c'è già il suo bravo nominativo pronto. E nessuno è così pazzo da mettersi contro il "capo", al momento delle votazioni.
- Sì. Anche questo è vero.
Simmons andò col pensiero alle ultime votazioni alle quali aveva preso parte e dovette convenire che quello che diceva l'amico era proprio vero. Rex Chapman era molto bravo a rispettare la forma. Ma era ancora più bravo a manovrare il comitato, in modo che votasse sempre come voleva lui. E non sbagliava un colpo. Non per niente era il capo indiscusso del loro partito, in quello Stato, ormai da molti anni, e nessuno aveva mai neppure pensato di insidiare la sua posizione.
- Perciò stagli dietro al "capo". - concluse Stockton - E cerca di convincerlo.
- Puoi giurarci, che lo farò.
- Perchè questa volta, caro Lionel, il candidato devo essere io. A qualunque costo.


* * * * *

Trevor Ruffin era un tipo efficiente e metodico. D'altra parte non si poteva fare quel mestiere per anni, e con successo, senza possedere quelle caratteristiche. Aveva appena finito di controllare per la terza volta la funzionalità del fucile di precisione che si era procurato e tutto era perfettamente a posto. Il fucile non era suo, perchè non gli piaceva tenere certe cose "compromettenti" in casa propria. E con ragione.
Ruffin era già stato arrestato e processato più di una volta. Ma aveva sempre finito per uscirne pulito, proprio perchè la polizia non era mai riuscita a trovare niente che potesse davvero incastrarlo. Nessuna arma, nessuna impronta, nessuna prova. Tutto merito della sua prudenza e della sua organizzazione. Il fatto era, molto semplicemente, che Ruffin aveva un mucchio di amicizie e di conoscenze. Perciò non aveva nessuna difficoltà a lasciare le varie armi, o qualsiasi altro oggetto che gli fosse utile per il suo lavoro, direttamente in casa di qualcun'altro. Salvo poi riprenderselo indietro quando ne aveva bisogno e per lo stretto tempo che gli era necessario. Come ora con il fucile di precisione, per esempio.
Ruffin guardò l'orologio: le otto meno qualche minuto. Ora di muoversi. Con gesti rapidi e sicuri il killer rimontò i quattro pezzi nei quali aveva scomposto l'arma e infilò il fucile completo dentro una custodia da strumento musicale che usava spesso in casi del genere. Un po' banale come copertura, ma per i brevi tragitti era ancora il metodo migliore. L'aveva già utilizzato, in passato, e aveva sempre funzionato a meraviglia.
Si infilò il giaccone di pelo, adatto al freddo che era calato sulla città, e uscì dal suo appartamento. Fuori piovigginava appena e non si diede la pena di prendere l'ombrello. Attraversò la strada e si diresse verso l'automobile, parcheggiata dalla parte opposta. L'aveva appena rubata, un paio di ore prima, nel parcheggio di un grande magazzino lì vicino. Era stato un gioco da ragazzi, per uno come lui. Era una piccola auto giapponese, come se ne vedevano tante, ormai, per le strade d'america. Il colore era blu scuro, l'ideale per non essere notato di sera.
Salì sull'auto, mise in moto e si avviò a velocità moderata verso il centro della città. Aveva calcolato che da casa sua al luogo dell'appuntamento non ci volessero più di dieci minuti, ma a Ruffin piaceva arrivare in anticipo. Non troppo, ovviamente, per evitare che qualcuno lo notasse mentre era fermo nell'abitacolo davanti alla sede della banca.

* * * * *

Il giudice Stockton era già vestito e attendeva nervosamente, camminando nell'ampio salone del loro appartamento. Il notiziario della TBS era finito e non aveva altro da fare se non aspettare che Janet fosse pronta. Il nervosismo ovviamente era dovuto a quello che sarebbe successo di lì a poco, ma sua moglie lo avrebbe sicuramente attribuito al suo ritardo nel vestirsi, per cui non si dava pensiero di nasconderlo.
Janet Stockton era ancora nella sua stanza da letto insieme con Delly, la cameriera, che la aiutava a sistemare le ultime cose. Janet teneva molto alle serate mondane e faceva sempre in modo di essere al massimo della sua eleganza. Non un filo doveva essere fuori posto e non poche volte aveva deciso di cambiarsi totalmente d'abito, proprio all'ultimo momento, solo perchè non era soddisfatta di un certo accostamento di colori.
John, come tanti altri mariti, cercava di ignorare quelle scene e se si arrabbiava cercava di tenere la cosa dentro di sè. Aveva imparato che, tutto sommato, arrivare in ritardo era ancora preferibile a rovinarsi il fegato senza costrutto. Quella sera, però, il programma era ben diverso dal solito e, se il diavolo non ci metteva la coda, sarebbe stata davvero l'ultima scena di quel genere.
Guardò l'ora: le 8,28.
Si stava facendo tardi, anche perchè al sabato sera il traffico faceva presto a diventare caotico. Con la pioggia ed il freddo, poi, c'era molta più gente che finiva per prendere l'auto. Fosse stata una serata normale, il giudice Stockton avrebbe sicuramente incominciato ad imprecare tra sè. Ma quella non era una serata normale.
Andò col pensiero all'effetto che avrebbe avuto sull'opinione pubblica il falso attentato contro la sua persona e il suo nervosismo quasi cessò del tutto. Un piano davvero perfetto il suo. In un colpo solo si sarebbe liberato di quella rompiscatole della moglie e avrebbe posto le basi per una luminosa e, ne era certo, inarrestabile carriera politica.

* * * * *

Trevor Ruffin era seduto tranquillamente sul sedile della sua auto e aspettava. Era arrivato verso le otto e un quarto e aveva trovato facilmente da parcheggiare, proprio davanti alla sede della First National Bank. Di fronte, al di là dell'ampio viale alberato, c'era il numero 89 di Lincoln Street, da cui sarebbero usciti John Stockton e sua moglie.
Il fucile era posato sul sedile a fianco, coperto da un plaid, pronto per essere usato. Ormai era quasi mezz'ora che aspettava, ma Ruffin non aveva fretta, nè dimostrava impazienza. Aspettare faceva parte del suo mestiere e lui sapeva farlo senza innervosirsi.
Guardò ancora l'orologio sul cruscotto: le 8,41. Aveva concordato di aspettare fino alle nove, dopodichè, se non vedeva nessuno, voleva dire che qualcosa era andato storto e se ne sarebbe andato. Niente di grave, comunque. Era già successo altre volte, nel suo lavoro, di dover rimandare, ma non per questo aveva rinunciato ai suoi incarichi. Ruffin non aveva "mai" mancato di portare a termine un "contratto" e ne era particolarmente orgoglioso. Avrebbe semplicemente riprovato un'altra volta.

* * * * *

- Caro... eccomi, sono pronta - disse infine Janet Stockton uscendo dalla stanza.
Era veramente molto elegante, in un abito lungo, moderatamente scollato, di un delicato color verde salvia, coperto sulle spalle da uno scialle bianco. Ma il marito non era certo nelle condizioni migliori per poterlo apprezzare.
- Era ora, accidenti. - borbottò.
Delly, in piedi dietro alla sua padrona, la stava aiutando ad indossare la pelliccia di visone.
- Non fare quella faccia, John. Non è mica tardi, no ?
- Figuriamoci ! Andiamo, va.
John Stockton uscì dalla porta e si incamminò con passo veloce per le scale. Abitavano solo al secondo piano e quando dovevano scendere non usavano quasi mai l'ascensore. John Stockton aveva tenuto conto di questo fatto, nell'elaborare il suo piano, perchè era necessario che lui scendesse le scale e uscisse fuori sul marciapiede prima di lei.
Arrivò al portone del palazzo e lo aprì, mentre sentiva il rumore dei tacchi della moglie, che scendeva le scale dietro di lui. Guardò fugacemente l'ora, mentre prendeva una sigaretta e la infilava tra le labbra: le 8,46.
Guardò dall'altra parte della strada ma era buio e non vide nulla di particolare. D'altra parte la strada era ampia e lui non sapeva che tipo di auto avesse il killer. Era certo però che Trevor Ruffin fosse al suo posto. Era un professionista in gamba, lui. E non aveva motivo di dubitare della sua efficienza.
Janet era arrivata in fondo agli scalini e stava attraversando l'atrio. Era il momento.
John prese l'accendino dalla tasca e fece per accenderlo, ma senza riuscirci. Con tutti i sensi all'erta, sentì i passi della moglie che arrivava... Che apriva il portone... Che usciva sul marciapiede... Adesso era proprio dietro di lui.
Ora !
L'androne alle loro spalle era vividamente illuminato e le due figure costituivano un bersaglio perfetto per il killer. Non avrebbe potuto sbagliare. Con un gesto apparentemente maldestro, il giudice Stockton si fece scappare di mano l'accendino e si chino rapidamente per raccoglierlo. Restò chinato per un attimo, aspettandosi di sentire lo sparo. Ma non sentì nulla.
Rimase ancora per qualche istante in quella posizione, fingendo di non riuscire ad afferrarlo, ma la detonazione non venne.
Maledizione, si chiese, cosa diavolo era andato storto?
Arrabbiatissimo afferrò finalmente l'accendino e si alzò lentamente, guardando fissamente davanti a sè, in direzione della Banca dove doveva esserci Trevor Ruffin. Era frastornato e cercava invano di dominare la sua irritazione. Ma non ebbe il tempo di fare altro.
Un colpo secco esplose proprio nel momento in cui John Stockton si alzava e un fiotto di sangue uscì prepotente dal suo petto. Si portò le mani nel punto in cui era stato colpito e rantolò per il dolore, mentre un'espressione di incredulità si dipingeva sul suo volto.
Cosa, cosa diavolo era successo ?
Poi la sua mente si chiuse e i suoi pensieri svanirono per sempre. La morte lo raggiunse in pochi attimi e Stockton si accasciò lentamente sul marciapiede, come una marionetta alla quale hanno tagliato i fili. Janet, in piedi di fianco a lui, lo vide cadere e proruppe in un urlo isterico.
Erano le 8 e 48.

* * * * *

Trevor Ruffin buttò il fucile dentro la custodia, posata sul sedile posteriore, e la richiuse. Poi con gesti rapidi mise in moto l'auto e si allontanò a velocità sostenuta, ma non eccessiva. Aveva bisogno di togliersi di torno il più presto possibile, ma non voleva certo prendersi una multa per eccesso di velocità.
A circa 500 metri dal luogo dell'attentato si trovò ad attraversare un incrocio male illuminato, per colpa di un paio di lampioni rotti. Per questo, nonostante il semaforo fosse verde, decise istintivamente di ridurre la velocità, guardando alla sua destra, per vedere se stava sopraggiungendo qualcuno. Non c'era nessuno. Fece per accelerare nuovamente, ma ormai si trovava al centro dell'incrocio con il semaforo già sul giallo.
Improvvisamente alla sua sinistra arrivò a velocità sostenuta un grosso furgone. L'autista del camioncino vide la piccola utilitaria blu scuro solo all'ultimo momento e tentò di frenare quando ormai era troppo tardi. Ruffin sentì lo stridore dei freni e si voltò da quella parte, ma ormai non poteva fare più nulla.
L'impatto fu terrificante.
L'auto di Ruffin venne colpita violentemente sul fianco sinistro, proprio all'altezza del sedile del guidatore e finì contro uno dei lampioni spenti sul lato opposto della strada, accartocciandosi letteralmente intorno ad esso. Trevor Ruffin morì sul colpo, con la colonna vertebrale spezzata, quasi senza essersi reso conto di quello che era accaduto.
Anche l'orologio del cruscotto si ruppe, fermandosi sull'ora della sua morte: le 9,04.


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